BETWEEN HEAVEN AND EARTH

MOSTRA n. 119
ARTISTA: FLURINA BADEL, GIANCARLO LAMONACA, LISSY PERNTHALER
PERIODO: 26 OTTOBRE 2013 – 28 GENNAIO 2014
ORARIO: dal martedì al sabato 15.30-19.30 e su appuntamento

“Metti insieme due cose che insieme non sono mai state. E il mondo cambia”. Così scrive Julian Barnes nel suo ultimo libro “Livelli di vita”. Ebbene, l’esposizione “Between Heaven and Earth” (tra cielo e terra) intende combinare proprio due dimensioni dell’essere e del vedere che non si sono mai incontrate. Da una parte storie di levità, di aria, di nuvole, e dall’altra storie di terra, di fatiche, di sangue. Una volta accostati, questi due stadi, danno vita ad un campo inesplorato di analogie, simmetrie, contrapposizioni. Lo sguardo è spinto in contemporanea a intraprendere un viaggio verticale (ascetico) e uno orizzontale (terrestre), a raggiungere le altezze per cimentarsi, come Icaro, con lo “spazio degli dei” e a fare i conti con le cadute più violente, i precipizi, gli sfaceli della carne. E non si tratta solo di rappresentazioni, di incontri con la realtà “sotto forma di apparenza e fantasma”, ma di esperienze vissute in diretta, provate sulla propria pelle.

Già i corpi nudi di donna che la giovane artista svizzera Flurina Badel (Engadina, 1983; vive a Basilea) fotografa come fossero resti abbandonati in mezzo alla natura, trasmettono un malessere esistenziale che si evidenzia nella perdita dei loro tratti specifici e nel loro trasfigurarsi in cose. Ma il discorso si fa ancora più impellente nella performance che l’artista eseguirà durante il vernissage (Under My Skin II). Come una Penelope dei nostri giorni lei si cucirà addosso un vestito, quasi a voler suscitare una sensibilità dilatata ed esternare il piacere o la sofferenza di narrarsi all’altro. E lo stesso avviene anche con i “fazzoletti” su cui ricama, con un misto di ironia e intimità, frasi del tipo “I love you more and more every day”. A contare non è solo il messaggio, ma soprattutto il rito, non è solo la scrittura, ma soprattutto il gesto febbrile e maniacale della tessitura. In un epigramma Hugo von Hofmannsthal scrive “Terribile è quest’arte! Io filo il filo, estraendolo dal mio corpo e questo filo è insieme la mia via lungo l’aria”.

Ebbene, alla tessitura, all’intreccio sembrano paradossalmente rifarsi anche le foto di Giancarlo Lamonaca (Cortina d’Ampezzo 1973; vive a Varna in Alto Adige). Sono immagini di Nubi, ma non hanno nulla di realistico: infatti, alla pari di Ghirri egli non intende “scattare foto, ma costruire immagini”. E, per farlo, non riprende cieli sereni, versioni celesti dell’Arcadia, ma prova a portare il cielo in terra, a profanarne la purezza con una serie infinita di sovrimpressioni, di intrecci intricati e misteriosi. L’immagine assume allora l’idea di una rete pericolosa simile a quella del ragno, ordita nell’ombra come una congiura. Così, con operazioni di taglio, bruciatura, inabissamento, Lamonaca dà testimonianza non di come si vede, ma di come si potrebbe vedere. Non mostra vere nubi, ma il modo in cui noi le pensiamo e le immaginiamo. E anche le performance di Lissy Pernthaler (Bolzano, 1983; vive tra Berlino e l’Alto Adige), documentate in still o videoinstallazioni, fanno vedere, toccare, scrivere il corpo. Il suo è un linguaggio che non è mai purificato, ma primitivo, violento, fisico. L’obiettivo è quello di creare un corpo nuovo, aperto verso il mondo e verso gli altri, un corpo che comunica e con il quale si comunica. Dunque un gesto d’amore e di donazione. E anche se adopera simbologie ancestrali, come quelle di inghiottire avidamente cibo, di offrire il proprio cuore all’umanità, di avviarsi lentamente verso la morte, a interessarla è sempre il collegamento tra interno ed esterno, la relazione tra la propria intimità e la vita sociale. In fondo, ancora una cucitura, un filo che tesse contatti, legami, unioni.

E la terra e il cielo? Non sono altro che il risultato dell’intreccio tra gli infiniti spazi della vita: dalla discesa agli inferi più riposti all’elevazione verso le immensità più lontane, dall’illusione di calarsi nei meandri della psiche al sogno di essere sbalzati in una spazialità sterminata. Ma in un tempo caratterizzato dalla fine delle grandi narrazioni e dalla frantumazione di ogni progetto, forse non restano che rammendi, sofferti e vertiginosi tentativi di ricucire il senso dell’abitare, del presentarsi e del rivolgersi agli altri: senza dimenticare il coraggioso e utopico motto di T. S. Eliot: “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”. (estratto dal testo di Luigi Meneghelli)