La Giarina

Nome dell'autore: Artz2020

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FLUXUS-HAPPENING

Andrea Bianconi e Mauro Dal Fior in performance con la collaborazione degli studenti del Liceo Artistico Statale di Verona In occasione del Finissage della mostra FLUXIDEA-ANDREA BIANCONI E I FLUXARTISTI l’artista Andrea Bianconi propone la performance dal titolo Stupidity Experience con il coinvolgimento di un gruppo di studenti del Liceo Artistico Statale di Verona. Il poeta totale Mauro Dal Fior ci conduce nel mondo Fluxus, interpretando alcune azioni storiche dei principali protagonisti del più sperimentale movimento artistico globale nato agli inizi degli anni 60. L’introduzione è a cura di Valerio Dehò. sabato 6 maggio 2023, ore 17.00

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FLUXIDEA – ANDREA BIANCONI E I FLUXARTISTI

“Viviamo in un’epoca di superlavoro e di sottocultura;un’epoca in cui la gente è talmente laboriosada divenire stupida”– Oscar Wilde  Un artista contemporaneo incontra un gruppo di Fluxartisti storici in una mostra che non è fatta solo di storia ma anche di tanta attualità. Andrea Bianconi, artista ormai consacrato a livello internazionale, ha creato una serie di disegni in cui l’elemento casuale, provocatorio, dadaista si intreccia alla sua poetica della parola. Bianconi scrive con e per le immagini. Il suo recente libro Manuale per esercitare la propria stupidità dedicato all’ebetudine voluta e ricercata come forma di reazione alla violenza della ragione (di stato o meno), sta diventando un libro indispensabile per riflettere sulla funzione dell’arte. Del resto anche i Fluxartisti presenti in mostra che sono parte integrante della storia della Galleria La Giarina, hanno sempre predicato l’essenzialità dell’irriverenza e dell’assurdo per comprendere il mondo attorno. Bianconi ci vuole ricordare, anche andando indietro al Discorso sulla stupidità di Robert Musil, che essere stupidi volontariamente probabilmente evita di diventarlo involontariamente. In fondo l’essere diversi, l’essere artisti, consente anche delle libertà più ampie, come quella di rivelare che il non sense spesso apre molto di più la mente di un discorso cartesiano. Non vogliamo ricordare l’Elogio della follia dell’umanista Erasmo da Rotterdam, ma viene quasi spontaneo. Allora il legame di sangue di Bianconi con il dadaismo apre le porte anche alla coesistenza con i Fluxartisti, nel nome di una discendenza comune e anche di una pratica artistica che non vuole ripetersi e isolarsi, ma aprirsi al pubblico in modo dialettico e paradossale.  Per questa mostra sono stati scelti artisti e opere che hanno usato la parola, immagini e parole o solo testi-immagine. È stato anche inserito Ray Johnson fondatore della Mail art, prima arte veramente relazionale, in quel 1962 in cui nasce anche Fluxus e la Poesia visiva del Gruppo 70. Quindi “Fluxidea” è una mostra anche da leggere oltre che da guardare, un modo per uscire dall’abisso di immagini in cui cadiamo tutti i giorni quando accendiamo il nostro amato e insostituibile smartphone. Ben Vautier o Jean Dupuy hanno dedicato alla scrittura gran parte del loro lavoro artistico, ma opere straordinarie sono anche quelle di Giuseppe Chiari, musicista e artista visivo unico italiano del gruppo Fluxus, Ken Friedman o Bob Watts, oppure il boemo Milan Knizak con la sua Destroyed music, gesto violento opposto al perbenismo e al ben pensare. E certamente la parola è stata fondamentale nel lavoro dell’americano Dick Higgins, artista e teorico di Intermedia, fondatore di una celebre e irripetibile casa editrice come Something else nel 1963 a Manhattan.  “Fluxidea” è quindi una mostra che rivela la coscienza “storica” di un artista contemporaneo come Andrea Bianconi e la contemporaneità di artisti storicizzati come i Fluxus. Oltre alle opere saranno presentati dei video, uno dal titolo Ultra positiv realizzato con vari spezzoni di registrazioni effettuate da Andrea Bianconi in giro per il mondo dal 2015 al 2021, nei vari luoghi internazionali in cui ha lavorato. E insieme verrà presentata una breve antologia Fluxus anche per collegare il pubblico nel clima della mostra.   Valerio Dehò

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BEFORE AND AFTER PAINTING

Mostra n. 141  TITOLO: BEFORE AND AFTER PAINTING ARTISTA: ARNOLD MARIO DALL’O, ANTONIO RIELLO, SILVANO TESSAROLLO, FRANCESCO TOTARO A CURA DI: VALERIO DEHÒ PERIODO: 15 OTTOBRE – 30 DICEMBRE 2022   INAUGURAZIONE: 15 OTTOBRE 2022, ORE 17.00 – 20.00 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA (Via Interrato acqua morta 82, 37129, VR) ORARIO: DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 La mostra ha come focus la pittura intesa come assenza, fantasma di un paradigma estetico insopprimibile e resistente a ogni ondata della paranoia iconoclasta. Le opere presentate, in larga parte inedite, parlano della pittura evocandola come fonte di paradigmi visivi o di linguaggi che le si avvicinano sfiorandola. BEFORE AND AFTER PAINTING è un concept che guarda al lavoro di artisti che hanno sempre a che fare con la pittura anche quando non la praticano direttamente. Artisti che conoscono i limiti del linguaggio pittorico e cercano continuamente di superarli. Per questo uno dei punti di partenza di questa mostra è il disegno, la pratica della gestualità, che nasce assieme all’idea dell’opera. Oppure la decostruzione del senso attraverso la pittura evocata come fantasma, sopravvivenza di un codice perduto e probabilmente irrecuperabile. In questa prospettiva concettuale ogni segno precede o segue l’immagine, diventa una contemplazione bipolare distaccata e malinconica o rapida e impetuosa come il desiderio del fare. La pittura vive nella sua negazione.  Per questo sono stati scelti nuclei tematici o linguistici coerenti. Vi è una forma interna di rispecchiamento, o si riscontrano relazioni sottili e totalmente impreviste.  La scelta delle opere ha privilegiato comunque le singole individualità e poetiche. Sono esposte quindi serie di disegni (Dall’O, Riello, Tessarollo), Sculture (Dall’O, Tessarollo, Totaro), oggetti (Riello), dipinti mediali (Totaro) in cui internet diventa fonte di immagini e di nuove scoperte (Dall’O). BEFORE AND AFTER PAINTING vuole far vedere la vitalità della pittura come Nachleben, sopravvivenza che anima ancora (e sempre) la danza delle immagini e le articola in una dimensione linguistica polivalente, in cui la rete assume il ruolo di memoria collettiva che solo gli artisti possono ricondurre ad un senso attuale. 

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LA MATERIA DEL SILENZIO

Mostra n. 140  TITOLO: LA MATERIA DEL SILENZIO ARTISTA: VASCO BENDINI A CURA DI: VALERIO DEHÒ PERIODO: 11 GIUGNO – 24 SETTEMBRE 2022   INAUGURAZIONE: 11 GIUGNO 2022, ORE 17.00 – 20.00 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA (Via Interrato acqua morta 82, 37129, VR) ORARIO: DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO)  CATALOGO VANILLAEDIZIONI IN GALLERIA  Nell’anno del centenario della nascita di Vasco Bendini (Bologna 1922 – Roma 2015) La Giarina Arte Contemporanea intende rendergli omaggio con una mostra, La materia del silenzio, a cura di Valerio Dehò, che ripercorre attraverso una selezione di opere significative la sua intensa attività artistica dagli anni Cinquanta agli anni Duemila. L’intera opera di Vasco Bendini è stata studiata e seguita soprattutto negli anni ‘50-‘70 dai critici d’arte più importanti del periodo. Si può dire che la sua “fortuna critica” sia di valore eccezionale se non unico. Il rischio di ripetersi nello scrivere oggi di uno dei più grandi artisti italiani del Novecento, è abbastanza facile, ma la lettura del suo lavoro merita considerazioni che riescano anche ad uscire dalle insidie della diacronia. Ragionare attorno al suo lavoro in termini relativi e non assoluti, è un errore che non ha senso percorrere. Per questo riprendendo alcune motivazioni che vanno da Calvesi, sicuramente il critico che lo ha compreso subito, fino a Bruno Corà in tempi recenti, è sorprendente come la poetica di Vasco Bendini sia rimasta una sorta dioggetto misterioso, un’opera aperta, che non ha mai voluto rivelarsi a soluzioni sicure, a letture definitive. Ciò denota da un lato l’impermeabilità del lavoro a soluzioni definitorie, dall’altro anche il diverso approccio verso l’Informale, inteso in senso lato come aniconicità o Art autre o Informel o Non figurative art, che ancora resta un problema storiografico aperto. Si vuole affermare che Vasco Bendini è stato un artista che si è posto il problema dell’espressione, del diaframma tra il nulla e la materia, della gestualità come presenza dell’atto del dipingere anche senza gli strumenti tradizionali della pittura. La sua opera è un crocevia di esperienze, ha vissuto e rivissuto le esperienze dell’Informale internazionale e del post-Informale, come un campo invaso dalle erbe che periodicamente bisogna bonificare per renderlo di nuovo fertile e per farlo crescere. Vasco Bendini di per sé non ha limiti. La sua pittura tende a ricoprire il mondo e a impossessarsene. Nessun sapere potrebbe resisterle e opporsi. Da elemento di espressione e di liberazione, può eccedere ogni limite e proporsi come una costruzione dell’universo, come riproposizione del magma originario o elemento di affioramento di una coscienza estetica. Per questo il coinvolgimento delle sue opere ha bisogno dell’immersione in un liquido creativo in cui ritemprarsi e forse rinascere. Affiora l’esperienza del Sublime, la si percepisce come emozione che ci pervade e stordisce. La profondità è un risalire nella scala temporale, cercare di immergersi nella pittura per trovare il senso dell’origine, il punto di inizio di una scelta individuale che si riflette nell’essenza stessa del dipingere al di là delle tecniche e dei linguaggi. L’espressione come limite dell’Io e nello stesso tempo come cominciamento di un’avventura estetica che è condivisione, squarcio, apertura dell’Io agli altri e al mondo. Il catalogo della mostra è consultabile al seguente link:https://www.lagiarina.it/wp-content/uploads/2022/10/bozza_cataologo_bendini5.pdf

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DIPTYCHON | DITTICI DIALOGICI

Mostra n. 139  TITOLO: DIPTYCHON | DITTICI DIALOGICI ARTISTA: FRANCESCO TOTARO A CURA DI: FRANCESCA DI GIORGIO  PERIODO: 12 MARZO 2022 – 28 MAGGIO 2022   INAUGURAZIONE: 12 MARZO 2022, ORE 16.00 – 20.00. ACCESSO CON SUPER GREEN PASS  SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA (Via Interrato acqua morta 82, 37129, VR) ORARIO: DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO)  CATALOGO VANILLAEDIZIONI IN GALLERIA  […] La nostra separazione è un’illusione.Siamo parti interconnesse dell’intero, siamo uno stagno dotato di movimento e memoria. La nostra realtà è più grande di te e me, e di tutte le imbarcazioni che navigano sulle acque,e di tutte le acque su cui navigano. (1) Concepita come un’unica grande installazione, Diptychon|Dittici Dialogici di Francesco Totaro scandisce l’allestimento pensato per gli spazi della Galleria La Giarina Arte Contemporanea di Verona, che dedica all’artista la quarta personale, a cura di Francesca Di Giorgio. La mostra, costituita interamente da un corpus di lavori inedito, sviluppa una vera e propria narrazione all’interno di un percorso libero e immersivo. Attraverso le sale della Galleria si entra in contatto con storie differenti: ogni opera, pur facendo parte di un’idea espositiva unitaria, racconta “solo” una parte di una storia più grande che possiamo ricomporre attraversando gli “epicentri” tematici che trovano spazio in ognuna delle quattro sale della galleria. Entrando nella prima sala, si legge, scritta a pavimento in lettere di grandi dimensioni, HARMONIE/DISSONANZ (armonia/dissonanza). Proseguendo, si incontra la sala dedicata ai quattro elementi (aria, fuoco, acqua e terra), con le parole AKASHA-FELD (campo akashico). Akasha in sanscrito etere, spazio onnipervadente nella filosofia indiana è il primo dei cinque elementi. Nella sala maggiore, con la grande vetrata che prospetta sulla corte, è collocata la scritta NATUR/KAPITAL(natura/capitale).   Infine, nella sala ipogea, una Maternità contemporanea è introdotta dalla dicitura HERZ/HIRN (cuore/cervello). Francesco Totaro presenta così molte storie allo stesso tempo, senza sovrapporre le une alle altre, dando ad ognuna la possibilità di esprimersi e di svilupparsi individualmente. Le figure umane che ritornano in molti dei lavori esposti sono presenti per ricordare il valore di quella singolarità connessa a tutto il resto. In questi ultimi lavori l’artista prosegue, infatti, la sua riflessione sulle potenzialità creative della mente, attraverso la rappresentazione dell’essere umano che compie delle azioni simboliche. «La raffigurazione è strutturata secondo una visione che affianca due piani contrapposti, ognuno dei quali è espressione di un differente grado di consapevolezza, rispetto all’azione stessa che si sta compiendo. In sintesi, potremmo dire, due facce della stessa medaglia» racconta l’artista. Ecco che la parola Diptychon, mutuata dal rigore e dall’ordine della lingua tedesca, richiama la scelta della forma del dittico (e polittico) come fondamentale soluzione stilistica che mette in dialogo pittura e photo-grafica digitale, forma e contenuto. Sulla tela la pittura acrilica trasmette la parte di messaggio inerente alla figura umana che compie l’azione. Utilizzando, invece, la stampa digitale di un elaborato photo-grafico (una fotografia digitale su cui l’artista interviene, usando il mouse per disegnare degli elementi grafici) si focalizza il contenuto etico sotteso all’azione stessa. Al dialogo tra due supporti molto diversi tra loro come la tela e la lastra di metallo Totaro affida il compito di creare una “nuova alchimia”, generatrice di un dialogo tra passato e contemporaneo. (1) Ervin Laszlo. La scienza e il piano akashico. Connessione e memoria nel cosmo e nella coscienza: una Teoria Integrale del Tutto. Parte Prima, Le basi di una Teoria Integrale del Tutto. Come le informazioni collegano tutto ciò che esiste. Universale Economica Feltrinelli / Oriente, 2020. Il catalogo della mostra è consultabile al seguente link:https://www.lagiarina.it/wp-content/uploads/2022/10/Catalogo_Totaro_DIPTYCHON_v3.pdf

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DIARIO PUBBLICO

Mostra n. 138 TITOLO: DIARIO PUBBLICO – DAGLI ANNI ’80 AGLI ANNI 2000 ARTISTA: FRANCESCO GARBELLI A CURA DI: FRANCESCA DI GIORGIO PERIODO: 09 OTTOBRE 2021 – 12 FEBBRAIO 2022  INAUGURAZIONE: 09 OTTOBRE, ORE 16.00 – 20.00. ACCESSO CON GREEN PASS SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA (Via Interrato acqua morta 82, 37129, VR) ORARIO: DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO) MONOGRAFIA VANILLAEDIZIONI IN GALLERIA Non sai che non si esce vivi dagli Anni ’80 cantavano gli Afterhours, una sorta di monito legato ad un preciso periodo storico che ha fatto da vero spartiacque per i linguaggi dell’arte e non solo, apripista e fonte di ispirazione per le generazioni future. Diario Pubblico – la nuova personale di Francesco Garbelli, a cura di Francesca Di Giorgio, che inaugura sabato 9 ottobre, negli spazi de La Giarina Arte Contemporanea a Verona – prende le mosse da uno dei decenni che oggi, a distanza, può essere guardato con lucidità attraverso il filtro e la lente d’ingrandimento del presente. Per molti storici gli Anni ’80, nel loro mix di nuovo e di vecchio, di continuità e di rottura, furono «l’ultimo vero decennio del Novecento e il primo del XXI secolo: il punto di passaggio e di transizione tra due universi socio-culturali molto diversi, in cui si sovrapposero fenomeni novecenteschi in dissoluzione con stimoli del secolo che stava per aprirsi». L’arte non si sottrae al confronto con la storia e si inserisce pienamente nel flusso degli eventi. Ecco perché l’indicazione temporale del sottotitolo è fondamentale per comprendere l’evoluzione di una intera ricerca, senza prescindere dal contesto storico di partenza e di arrivo e per costruire quel ponte ideale che collega la produzione di Francesco Garbelli, dalle prime incursioni nello spazio urbano, con interventi di street art e public art, sulla toponomastica e sulla segnaletica stradale, agli ultimi esiti che spaziano tra media differenti recuperando l’uso della parola significante: forma e contenuto mai disgiunti. Lo spunto per Diario Pubblico è dato da un corposo nucleo di opere della collezione della gallerista Cristina Morato, riconducibile ai primi anni di ricerca dell’artista e che, in mostra, è messo in relazione a lavori più recenti attraverso tematiche sociali, ecologiche, geopolitiche… Temi estremamente attuali e dibattuti, oggi, ma che Garbelli ha sondato in anni in cui non si erano affatto imposti all’attenzione pubblica e che fa di lui un vero pioniere dell’arte pubblica e relazionale italiana. In mostra, una dozzina di opere, da Il Paradosso del pedone, dei primi Anni ’90 a Non sono razzista ma… La rivolta delle parole, installazione non autorizzata di cinque targhe applicate su un muro lungo l’Alzaia Naviglio Grande a Milano, in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale, il 21 marzo 2021. La prima è un’opera su cui Garbelli torna a riflettere diverse volte negli anni e a declinarla con tecniche differenti: un cartello stradale che veicola un concetto filosofico. Il paradosso, infatti, ci spinge a ragionare sulla contraddittorietà della nostra esistenza e delle nostre azioni e sulla possibilità di analizzare la nostra condizione da altri punti di vista: «Noi siamo il ruolo che ci attribuisce la società, recitiamo a parti inverse ruoli diversi che, troppo spesso, non incontrano le regole del vivere civile» racconta l’artista.  Il lavoro di Francesco Garbelli può anche essere definito Pop, nel senso più pieno del termine. Opere che portano messaggi recepibili da tutti ma tanto stratificate da poter essere lette su più livelli. Opere come appunti visivi, fermi immagine di una società che forse non ha ancora elaborato il suo passato e sembra vivere in un continuo presente che le impedisce di riappropriarsi del proprio tempo e del proprio spazio. BIOGRAFIA: Francesco Garbelli si laurea alla Facoltà d’Architettura del Politecnico di Milano nel 1990 e vive e lavora a Milano. È stato tra i promotori e protagonisti della mostra-evento degli Anni ’80, a Milano, nell’ex fabbrica Brown Boveri. In seguito – confermando la sua attenzione al contesto urbano – compie i suoi primi interventi di public art concentrando il proprio interesse sulla toponomastica e la segnaletica stradale. Tra la seconda metà degli Anni ’80 e la prima metà dei ’90 realizza una serie d’interventi in varie città in Italia ed Europa – inventando nuovi cartelli con sottile ironia – grazie ai quali viene oggi considerato come un vero e proprio precursore della street e urban art. Negli anni ’90 fa parte del gruppo “Concettualismo Ironico Italiano” con il quale partecipa a una serie di mostre in Musei e Gallerie in Italia e Germania. Alcune sue opere entrano a far parte della collezione VAF- Stiftung, oggi custodita al MART di Trento e Rovereto. Ha inoltre insegnato alla N.A.B.A., Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e a L.UN.A., Libera Università delle Arti di Bologna.

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LEZIONI ITALIANE

Mostra n. 137 TITOLO: LEZIONI ITALIANE ARTISTI: ANDREA BIANCONI, CLAUDIO COSTA, ALDO MONDINO, EHSAN SHAYEGH, SILVANO TESSAROLLO A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 08 MAGGIO – 15 SETTEMBRE 2021  INAUGURAZIONE: SABATO 08 MAGGIO, ORE 16.00 – 20.00 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA (Via Interrato acqua morta 82, 37129, Verona) ORARIO: DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO) Perché convocare Italo Calvino a stabilire un senso, a interpretare, a diventare in qualche modo guida alle opere in mostra? Possono bastare le parole che egli ha rilasciato in un’intervista: «Ho voluto scrivere come un tempo disegnavano i pittori»? O quelle redatte in occasione di una mostra di Tullio Pericoli: «… la pittura mi è servita come spinta a rinnovarmi, come ideale di invenzione libera…»? Una cosa è certa: ogni volta che Calvino si è addentrato nel mondo poetico di un pittore, ne è emerso con scritti che risultano illuminanti per comprendere l’opera dell’artista, i modi del suo “fare”. Egli sa che in principio si può conoscere solo la superficie delle cose (e delle immagini), ma è proprio per questo che si spinge a «cercare quel che c’è sotto»: il nascosto, il potenziale, l’ipotetico. In una delle Lezioni Americane scrive: «La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto». La spinta a scrivere gli viene sempre dalla mancanza di qualcosa che vorrebbe conoscere e possedere, qualcosa che gli sfugge. «Mi sento vicino a capire – annota – che dall’altro lato delle parole c’è sempre qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione». Ma l’altro lato delle parole è il silenzio o sono le parole che devono ancora essere dette? O sono quelle che non saranno mai dette? E a che mondo appartiene l’altro lato delle parole? È un non-mondo o un mondo che giace sotto ciò che è già stato visto e scritto? Non c’è risposta. Ma solo il desiderio di raggiungere il limite delle cose, e al tempo stesso, la consapevolezza che questo limite è inattingibile. La mostra Lezioni Italiane prende spunto chiaramente da quelle «proposte per il prossimo millennio» che sono Lezioni Americane. Lì Calvino esibisce la sua fatale vocazione a vedere ciò che sta oltre, accanto, attorno, dietro alla pagina: una pagina a più dimensioni, a infinite dimensioni, illusionistica, allucinatoria, enigmatica, ma sempre di una assoluta chiarezza. È vero: Lezioni Americane è un’opera interamente dedicata alla forma letteraria, ma attraverso essa, l’autore ci insegna a guardare il mondo della creatività con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza: ci apre altre vie da esplorare, nuovissime e antichissime, stili e forme che possono cambiare i nostri modi di vedere e rappresentare. Cinque gli artisti in esposizione (come cinque sono i saggi delle Lezioni Americane di Calvino). Ma non si pensi ad incontri e scambi reali. Ci possono essere contatti espliciti o corrispondenze segrete. Quello che conta è che tutte le opere, nel loro gioco di linee, colori e forme, lascino trasparire insospettabili significati. Che le tele di Mondino siano delle autentiche trappole visive, che gli “assemblaggi” di Costa ci mettano in sintonia con la storia dell’umanità, che la stratificazione di alfabeti di Bianconi richiami il mosaico dei linguaggi quotidiani, che i pupazzi in cera di Tessarollo stiano «sui limiti del gioco e del serio», che le pietre di Shayegh siano “punti” che scandiscono le “pagine” della mostra. È come se niente si esaurisse nella pura visibilità, ma ogni immagine attendesse di essere letta, svelata nella sua scrittura nascosta. Quello che essa ci trasmette è il senso dell’approccio all’esperienza, più che il senso dell’esperienza raggiunta. Lo motiva anche un passo della lezione sull’Esattezza: «Ogni forma acquista un senso non fisso, non definitivo, non irrigidito, ma vivente come un organismo». La struttura dell’opera cioè cambia continuamente, si dilata e insieme si disfa sotto gli occhi: si presenta accumulativa, modulare, combinatoria. Ma è quanto si augura Calvino al termine delle Lezioni Americane: «Magari fosse possibile un’opera concepibile al di fuori del self, un’opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…». Ed è quanto si augura anche l’esposizione Lezioni Italiane: ossia mostrare un mosaico del visibile, una continuità di forme, un campionario di stili, «dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». Andrea Bianconi Andrea Bianconi (Arzignano, 1974) usa gli inchiostri per costruire un’architettura che Calvino avrebbe definito «uno sfacelo senza fine né forma». Egli sembra fondere insieme la concentrazione e la leggerezza; riempire i suoi piccoli disegni di connotati ingegnosi, costringendo l’osservatore quasi ad esaminarli con l’aiuto di una lente, e insieme lasciare alle superfici una sovrana levità. Niente viene detto in modo esplicito: ogni segno, ogni tocco suscitano nella mente significati e allusioni, e ognuna di queste allusioni porta in sé un corteo di altri significati. Come i grandi poeti persiani, che realizzano poemi immensi incastrando storielle quasi invisibili, Bianconi conosce l’arte dell’intreccio e del riflesso, degli intarsi che si illuminano a vicenda, suggerendo prospettive labili e infinite: vere ipotesi di ipotesi, che si concludono solo nel vortice della loro moltiplicazione. Aldo Mondino Aldo Mondino (Torino 1938 – 2005) dà vita ad un linguaggio che fonde insieme ironia e lirismo, sogni e contraddizioni. Pesca dalle immagini di tutti i giorni, ma anche da quelle della storia dell’Arte, per spingerci a riscoprirle e a ripensarle con sottile humour. Nell’opera In una cornice informale (1965) la pittura sembra giocare con il perimetro tradizionale attraverso un gesto e una forma “in libera uscita”; in Sonnenuntergang (tramonto, 1980) insegue l’effetto ruvido e vigoroso di una xilografia. È sempre l’inganno ottico e linguistico a interessare Mondino. Egli tenta di «chiudere il cielo in una pozzanghera», avrebbe detto S. Vertone; vuole leggere «il mondo alla rovescia», avrebbe suggerito Calvino. Claudio Costa Il lavoro di Claudio Costa (Tirana 1942 – Genova 1995) si colloca tra malia e magia, tra scienza e metafisica. Egli è filosofo

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PRIMA CHE IL GALLO CANTI

Mostra n. 136 TITOLO: PRIMA CHE IL GALLO CANTI ARTISTA: SILVANO TESSAROLLO A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 10 OTTOBRE 2020 – 27 FEBBRAIO 2021 INAUGURAZIONE: SABATO 10 OTTOBRE, ORE 17-20 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA Scorci abbandonati dopo una catastrofe, resti fatiscenti e deserti di qualche periferia urbana consumata dalla polvere del tempo: teatri tristi, liturgie funerarie, architetture metafisiche. Silvano Tessarollo titola Interni le sue installazioni frantumate, anticlassiche, prive di ogni ripiegamento nostalgico. Interni, perché non hanno nulla di monumentale, di solenne, di grandioso, quanto invece un che di declassato, rotto, marginale. L’artista non intende cioè ingabbiare le sue drammaturgie dentro forme risolte e chiuse, ma costruire creazioni non compiute, aperte, mutilate. Anche perché, come ha detto Anselm Kiefer, “tutto ciò che facciamo tiene già in sé radicalmente la sua stessa negazione”. Ogni oggetto resta in vita, ma la vita si è irrimediabilmente allontanata da esso. Ebbene, Tessarollo sembra lavorare proprio su ciò che si allontana e si dilegua; anzi, sembra dare corpo proprio alla sparizione. Non sono infatti gli interni/bagni la messa in scena di un ordine prossimo a naufragare nel nulla? E non sono le gigantesche superfici in resina (coperte di cera, cenere, colori industriali, stoffe consunte) autentiche installazioni del disastro? Ma è ogni singolo elemento, qui, a richiamare un oscuro, illimitato inferno: l’aspetto abietto delle impalcature orizzontali (metà basamento/metà sepolcro), gli accessori per il bagno invariabilmente profanati, pareti e pavimenti assenti o sfondati, quasi a svelare fondamenta occulte. È come se tutto tendesse verso quel luogo dove le immagini si annullano o si mescolano in una metamorfosi infinita e inaccessibile. Si tratta di cinque lavori realizzati nel 2007 e custoditi in casse “segrete”. Forse per garantire la loro integrità o forse per celare il loro inconfessato e febbrile mistero. Fino a qualche anno prima Tessarollo si era ingegnato attorno ai suoi “Mitici pupazzi” sempre indaffarati in faccende paradossali, come i protagonisti dei cartoon da cui provenivano. Essi si mostravano eccessivi, irriverenti, sconclusionati, ma pure corrotti, imperfetti, incompiuti. Anch’essi cioè, in qualche modo, già ostaggio di quella rovina abissale in cui sono immerse le spoglie desolate degli Interni (o anche le opere dei cicli di Umano è il nostro cielo e di Dies Irae, tutte realizzate nel giro di anni che vanno dal 2004 al 2009). Anzi, i pupazzi li ritroviamo “in carne e ossa”, anche tra questi relitti di mondo, con i loro tratti appesantiti o consumati, i loro colori vistosi, le loro pose caricaturali; maiali scuoiati, teste dilaniate di cani, pennuti ridotti a scheletri danzanti (da cui viene il titolo ironico della mostra Prima che il gallo canti). È vero, sono solo comparse, attori marginali, ma introducono in scena un’atmosfera di sospese ambiguità, tra il tragico e il comico, tra l’ilare e l’inquieto. È come se Tessarollo saggiasse di continuo lo spessore del dramma con l’acido della derisione o attraverso la comicità cercasse di guardare più a lungo il sole accecante del Niente. A compendio (o annuncio) di tutto, due grandi dipinti su carta (Studio per interno 1 e Studio per interno 5, del 2005): vere acrobazie di oli e cere che fondono figurazione e lirismo. Superfici che sembrano deflagrare, dando l’idea di un moto ascendente, quasi plastico. Collegano lo spirituale e il barbarico, il buio e l’accensione. Si potrebbe quasi dire che siamo di fronte ad un’immagine informale, abitata da energie sotterranee, da vortici che includono ogni elemento, da cataclismi gestuali che conducono verso dimensioni oscure. Infatti niente è più riconoscibile con chiarezza, nessun limite è più rispettato. Così anche i dipinti finiscono per veicolare una trama di linee sfregiate, spezzate. Mimano, in un certo senso, la struttura esplosa degli Interni. Solo che il concetto di processo dissolutivo in essi è portato alla massima potenza. Sta prima e dopo che la distruzione si compia. Forse rivela la distruzione stessa. English version Abandoned glimpses following a catastrophe, crumbling and deserted remains of some urban suburbs consumed by the dust of time: sad theaters, funeral liturgies, metaphysical architecture. Silvano Tessarollo titled Interiors for his shattered, anti classical installations, devoid of any nostalgic retreat. Interiors, because they have nothing monumental, solemn, grandiose, but rather something downgraded, broken, marginal. In other words, the artist does not intend to enclose his dramaturgies within resolved and closed forms, but to construct unfinished, open, mutilated creations. Also because, as Anselm Kiefer said, “everything we do already radically contains its own negation”. Every object remains alive, but life has irremediably moved away from it. Well, Tessarollo seems to work precisely on what moves away and disappears; indeed, he seems to give substance to disappearance. Are not the interiors / bathrooms the staging of an order which is close to being wrecked into thin air? And aren’t the gigantic resin surfaces (covered in wax, ash, industrial colors, worn fabrics) authentic installations of disaster? But it is every single element, here, that evokes a dark, unlimited hell: the abject appearance of the horizontal scaffolding (half base / half sepulcher), bathroom accessories invariably desecrated, absent or broken walls and floors, as if to reveal occult foundations. It is as if everything tended towards that place where the images cancel each other out or mix in an infinite and inaccessible metamorphosis. These are five works created in 2007 and kept in “secret” boxes. Perhaps to guarantee their integrity or perhaps to conceal their unconfessed and feverish mystery. Until a few years before, Tessarollo had worked around his “Mythical puppets” always busy in paradoxical matters, like the protagonists of the cartoons from which they came. They showed themselves to be excessive, irreverent, inconclusive, but also corrupt, imperfect, incomplete. In other words, they too, in some way, are already hostage to that abyssal ruin in which the desolate remains of the Interiors are immersed (or even the works of the cycles of Human is our sky and of Dies Irae, all realized from 2004 to 2009). Indeed, we find the puppets “in flesh and blood”, even among these wrecks of the world, with their heavy or worn out features, their showy colors, their caricatured poses;

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NON C’E’ PIU’ ORIZZONTE

Mostra n. 135 TITOLO: NON C’E’ PIU’ ORIZZONTE ARTISTI: ABBAS KIAROSTAMI – ANDREA BIANCONI – ALEX PINNA – EHSAN SHAYEGH – MOEIN FATHI A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 01 FEBBRAIO 2020 – 05 SETTEMBRE 2020  INAUGURAZIONE: SABATO 01 FEBBRAIO, ORE 18.30  SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA L’orizzonte è una linea immaginaria che sta solo negli occhi di chi guarda: è un luogo geometrico che si sposta mentre noi ci spostiamo. Essa apre alla dimensione dell’ulteriorità, del sogno, dell’utopia. Ma cosa succede, quando, come oggi, l’intero pianeta è in comunicazione e il nostro sguardo, si dissolve nel fluire indistinto delle immagini? L’artista deve per forza inventarsi nuovi confini, dare corpo a nuove forme, produrre inedite relazioni. Deve mettere al mondo un mondo che prima non c’era (o forse non c’è mai stato). Deve aprire spazi sconosciuti, costringendoci a vedere al di là di quanto si può raggiungere con gli occhi. Linee volubili, respiri di geografie sterminate, figurine di corda che sembrano divorare lo spazio, ribaltandolo e sospendendolo, “sguardi” in movimento che non si fermano mai e che inseguono strade che non arrivano da nessuna parte. Queste le immagini, sempre al limite dell’incompiuto e dell’incompleto che compongono lo spartito visivo della rassegna “non c’è più orizzonte”. Esse mostrano “storie” infinite che non conoscono limiti, chiusure, cornici, ma solo un continuo andare che le fa esistere al di là di noi, fuori di noi, a prescindere da noi (e dalle nostre conoscenze). Qui le immagini alludono a un mondo in cui il dato deve essere continuamente ri-dato, ricreato, per venire alla luce e allo stesso tempo rimanere segreto, incomprensibile, inappropriabile. È come elaborare una perenne nascita, un incessante inizio, un dare volto alle cose, ma non per svelarle, quanto invece per animarle e renderle stupite e stupefacenti, alla pari di uno “sguardo bambino”. “Ricominciamo!” era anche uno dei solerti inviti del regista, fotografo, poeta Abbas Kiarostami (Teheran 1940 – Parigi 2016), presente in mostra con il film Roadse alcune foto. Ricominciare, perché il suo cinema non narra, non conosce sequenze, successioni di eventi, ma un seguito di intensità di cui la stessa macchina da presa fa parte. In Roadsessa pare comportarsi quasi in maniera poliziesca, investigatrice, curiosa, alla ricerca di una veduta in più da cogliere, da sorprendere. Non si propone di riflettere sui luoghi inquadrati: si ostina invece nel non chiudere, nel proseguire il film al di là di se stesso.  E cosa definiscono mai le linee-freccia di Andrea Bianconi(Arzignano, Vicenza 1974)? Sono linee spoglie che scattano, si flettono, si spezzano, si cancellano (o si incrociano in direzioni opposte) e ricominciano. Certo è che esse non confinano ma sconfinano; non descrivono ma creano. A volte sono tratti che si allargano, diventando quasi segnali, a volte puri cammini alla cieca, tempeste di segni che si intrecciano, fino ad arrivare al testamento estremo della forma, se non addirittura della visibilità. È come se Bianconi si stesse trasformando (pollockianamente) nella cosa stessa che sta disegnando. La linea non è più allora solo il filo di Arianna, la guida che serve per riconoscersi nel proprio labirinto, ma anche la forza che non cessa di imporsi e trascinare al suo seguito l’artista e l’osservatore. Di fronte ai corpi minimi fatti di corde annodate di Alex Pinna(Imperia 1967) Giuseppe Ungaretti avrebbe parlato di “Variazioni sul nulla” o di ”impalpabili levità”. Essi, infatti, “prendono vita” attraverso un lavorio di fili che si legano e si saldano, ma anche che si attorcigliano e si ingarbugliano. Così, nel loro “nonnulla” abita la trama e l’ordito, il nodo e l’inganno. Essi non hanno una vera fisionomia, ma piuttosto una fervida intenzione esibitiva, quasi fossero pupazzi o marionette. Eppure non sprigionano vitalismo, tensioni funamboliche, bensì una sorta di pigrizia o di indolenza. Non osservano un mondo a venire come facevano “I viandanti” di Friedrich, ma si dondolano sull’orlo di una catastrofe già avvenuta, si esibiscono su mensole o scaffali svuotati di ogni sapere. Allestiscono uno spettacolo scenografico del disastro e dello smarrimento quotidiano. E sullo stesso concetto di perdita delle coordinate, di spaesamento visivo si basa anche la grande installazione di Ehsan Shayegh(Khash, Iran 1975). Si tratta di una allusione a quello spazio illimite che è il deserto dove tutto si sgretola, tutto ha una dimensione trascurabile, tutto è precario. Essa non segnala però una sparizione o un’assenza, ma un offrire un corpo anche al vuoto, alla dissoluzione, allo sgretolamento della materia: è un dare forma a ciò che è senza forma, un’immagine a ciò che è senza immagine. È vero: non si vede più il mondo, come se il sole e il tempo l’avessero consumato. Ma al suo posto resiste una traccia, una ferita, un’alterità che pulsa, conferendo valore a ciò che è occultato. Tanto più che Ehsan dissemina lo spazio di pietre colorate, simili a meteoriti, mettendo in comunicazione cielo e terra, suolo e “celesti orizzonti”. Quattro artisti con quattro linguaggi diversi, ma per arrivare tutti a dare testimonianza di precari equilibri, di dimensioni ulteriori, lì dove prendono senso anche gli strappi e gli squarci del vivere; ma soprattutto lì, dove sorge il mistero di uno spazio che non ha confine e di un tempo che si dà come mescolanza vertiginosa di tempi, eventi, cose. Poi su tutto si diffonde la musica “Buco nero a terra” di Moein Fathi(Teheran, Iran 1993): suoni e canzoni, eseguiti sia con strumenti elettronici che con strumenti tradizionali, come a voler accostare i ritmi orientali a quelli occidentali e, in qualche modo, abolire la lontananza, a favore di una incomparabile  immensità. Di seguito, il catalogo della mostra in formato PDF

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CROSSINGS > IN PROGRESS

Mostra n. 134 TITOLO: CROSSINGS > IN PROGRESS ARTISTA: FRANCESCO TOTARO A CURA DI: GABRIELE PERRETTA PERIODO: 05 OTTOBRE 2019 – 18 GENNAIO 2020 INAUGURAZIONE: SABATO 05 OTTOBRE, ORE 18.30 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA ORARIO:  DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO) La creatività elettronica e digitale è, storicamente, l’ultima frontiera comunicazionale, emozionale e artistica che l’uomo ha saputo inventare e con la quale tenta di esprimersi. In essa, come nelle opere della precedente produzione di Francesco Totaro, la modernità si esplica in tutte le sue affascinanti sfaccettature. Con essa si sviluppano dei temi che, al di là dell’apparente tensione di questi risultati, sono presenti in tutto l’arco della storia mediale (Medialismo), con le opportune riformazioni e decostruzioni.
 Nuova è la maniera di esprimerli, grazie ad un mezzo che, se da un lato è entrato nelle nostre case sotto forma di pc e si esprime secondo un linguaggio noto a tutti, dall’altro ha offerto uno strumento potente ed affascinante per coloro che, come Francesco Totaro, hanno sentito l’esigenza di coinvolgerlo nell’ambito delle culture simboliche, sentendosi moderni, attraverso queste particolari immagini che “pittoricamente” simulano il movimento. Il progetto Crossings è l’espressione della più recente ricerca artistica di Francesco Totaro, del suo personale modo di fare arte e che, se da un lato lo ha sempre condotto ad evitare la scelta di un mezzo privilegiato – o comunque a negarne la concezione tradizionale, quando ne faceva uso – dall’altro oggi lo ha ri-condotto alla tecnica pittorica dell’acrilico su tela. Con Crossings in progress, il progetto compie un ulteriore upgrade, accostando un’importante serie di opere inedite ad alcuni lavori già esposti nella primavera di quest’anno e viene presentato al pubblico attraverso un allestimento espressamente ideato per la Galleria La Giarina di Verona. Ricorrendo ad un medium “codificato” come quello della pittura, l’artista pone in essere un’astuzia linguistica che gli consente di portare all’attenzione di una vasta platea, una riflessione complessa come quella dell’uso cosciente del potere concettuale dell’ immagine pittorica, attraverso un approccio in cui la dimensione estetica ed etica si fondono.
Il principale intento nel trasferimento di questo messaggio è quello di insinuare nel fruitore un maggiore grado di cognizione in merito alla co-creazione del proprio presente, abbandonando la condizione di “martire” per convertirsi in inventore del proprio piacere. In questo nuovo progetto, Francesco Totaro conferma il proprio interesse, neo-umanistico, per l’ανθρωπος (anthropos), per il corpo reale, consolidando la propria poetica, fortemente influenzata dai testi sugli studi che mostrano le connessioni tra la meccanica quantistica, la programmazione inconscia, la Mente Universale e, più in generale, sulle ricerche finalizzate all’esplorazione dei poteri creativi latenti dell’essere umano. DI SEGUITO IL LINK PER ACCEDERE AL CATALOGO: https://www.lagiarina.it/wp-content/uploads/2019/09/Totaro_Crossings_Catalogo.pdf

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LE PAROLE IN RIVOLTA

Mostra n. 133 TITOLO: LE PAROLE IN RIVOLTA ARTISTI: JULIEN BLAINE – JEAN FRANCOIS BORY – GEORGE BRECHT – GIUSEPPE CHIARI – HENRI CHOPIN – PAUL DE VREE – BERNARD HEIDSIECK – EMILIO ISGRO’ – EUGENIO MICCINI – ALAIN ARIAS MISSON – LADISLAV NOVAK – SARENCO – BEN VAUTIER – FRANCO VERDI A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 04 MAGGIO 2019 – 28 SETTEMBRE 2019 INAUGURAZIONE: SABATO 04 MAGGIO, ORE 18.30 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA ORARIO:  DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO)     Lettere alfabetiche, ideogrammi, corsivi, arabeschi, immagini, geroglifici, combinati in modo da scuotere il linguaggio e la lettura d’uso abituale. Sono questi i materiali della Poesia Visiva. Segni che significano se stessi e che, insieme, rimandano ad altro da sé. Commistioni di dati verbali e dati iconici che, proprio nel punto in cui si incrociano, mostrano “qualcosa che non è più né parola né immagine”, ma un’esperienza di confine, un luogo interstiziale in cui i significati deviano, si alterano, si moltiplicano. Ebbene, la proposta della Galleria La Giarina di quattordici artisti della Poesia Visiva va al di là di un semplice esame delle sperimentazioni verbo-visuali che si sviluppano a livello internazionale tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso, anche perché si tratta di pratiche aperte che travalicano liberamente ogni vincolo di schieramento e di scuola. Intende invece porre l’accento proprio sull’inversione ironica  dei significati e sulla sorpresa e imprevedibilità prodotta dal cortocircuito che s’instaura tra parola e immagine (o anche tra parola e cosa). Si tratta cioè di suscitare una sorta di continuo “spaesamento” nei confronti di quella che è l’ossessionante panorama di segni, simboli e figure che regolano la società dei consumi. Basterebbe osservare quella borsetta nera da boutique (1988) su cui Ben Vautier ha scritto “Ce sac contient un billet d’avion…” e mille altre cose possibili, ma anche nascoste, ipotetiche, congetturali. È come se la parola perdesse il proprio valore di precisione, per accentuare il valore di ambiguità ed elusività. Su due sassi invece George Brecht traccia la nuda parola “Void” (1989), come a voler mettere a contatto due realtà antinomiche (la materia e lo spirito, il principio e la fine, il pieno e il vuoto). Ma il più delle volte ci troviamo di fronte a termini prelevati di peso da contesti quotidiani (titoli di giornali, sigle televisive, segnaletica stradale) fatti interagire in maniera provocatoria e problematica con immagini estrapolate da altri contesti quotidiani (fumetti, fotoromanzi, cartelloni pubblicitari): questo, per operare sempre direttamente su linguaggi di massa. Di conseguenza, l’obiettivo diventa quello di cogliere l’estraneo nello spazio dell’abituale, o meglio, quello di inceppare, se non addirittura di mandare a gambe all’aria il sistema della comunicazione, mostrando che in realtà non comunica più niente, se non la propria incomunicabilità. Così si spiegano anche alcune frasi inquietanti e contestative scritte su due tavole di Sarenco: “La poesia è morta, è morto anche il poeta” (1978) o anche “Cosa c’è dietro” (1983), quasi a far prendere coscienza al soggetto della propria alienazione ed emarginazione. In fondo, quella della Poesia Visiva è una ostinata lotta (o un’utopia?) per tentare di ricostruire un nuovo ordine di significati, una inattesa e sorprendente redenzione delle parole e delle immagini. DI SEGUITO IL LINK PER ACCEDERE AL CATALOGO: https://www.lagiarina.it/wp-content/uploads/2019/04/Catalogo-La-Giarina-Le-parole-in-rivolta.pdf

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BEYOND PAINTING 2

Mostra n. 132 TITOLO: BEYOND PAINTING 2 ARTISTI: ROMINA BASSU – ANTONIO BARDINO – GRETA PLLANA A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 26 GENNAIO 2019 – 06 APRILE 2019 INAUGURAZIONE: SABATO 26 GENNAIO, ORE 18.30 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA ORARIO: DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO) Secondo appuntamento del progetto “Beyond Painting”. Con le tele e i disegni di tre artisti (Romina Bassu, Antonio Bardino, Greta Pllana), la Galleria La Giarina mostra come la pittura non sia assolutamente da consegnare al museo delle cere della Storia dell’Arte. Neppure oggi quando l’impiego sempre più spregiudicato e accelerato delle moderne tecniche di comunicazione sembra confinarla nel ghetto della tradizione. Testimone delle immagini artificiali, essa, l’archetipo di ogni immagine, forse si è messa ad attingere a piene mani alle categorie estetiche della contemporaneità: allo spaesamento, all’ironia, alla citazione meta-stilistica. Ciò non significa però abdicare alle convenzioni e ai confini classici, ma, all’interno di questi confini, tentare nuove narrazioni, vedere come le antiche tecniche si comportano una volta che si appropriano di altri linguaggi (fotografia, video, internet). È un modo di pensare la tradizione come qualcosa di attivo, innovativo, sperimentale, che non si conclude in se stesso, ma che si propone come dimensione dello sconfinamento e della ibridazione. Lo può testimoniare l’iconografia ipnotica e inquietante, sfacciata e perfida che suggerisce la pittura di Romina Bassu (Roma, 1982; dove vive). Essa porta in scena un modello di femminilità, la cui genesi può essere fatta risalire all’idea di donna sorridente, sottomessa, “perfetta” degli anni ’50. Ispirandosi alle atmosfere e alle pose di quell’epoca (desunte da foto d’archivio e locandine cinematografiche), l’artista raffigura corpi che assurgono a puri oggetti del desiderio. Però non ne fa personaggi eroici, ma piuttosto personaggi quasi privi di vita, sacrificati al loro mero apparire. Infatti c’è sempre nella rappresentazione un elemento assente, un pezzo che manca, una rimozione allarmante. Così le icone diventano presenze fantasmatiche e indistinte, se non addirittura personaggi di paradossali pantomime che recitano su fondali neutri. E il vuoto che le circonda pare proprio mettere in risalto il loro essere semplici stereotipi, cliché, simulacri. Ogni quadro di Greta Plana (Durazzo, 1992; vive a Treviso) invece appare come un mistero tutto da scoprire, fatto di ricordi e di sogni. E anche se l’artista prende spunto dalla realtà quotidiana (da foto o da immagini del web), si tratta sempre di raggiungere una dimensione quasi astratta e sospesa: più la rappresentazione di uno stato d’animo che di uno stato reale, più la deviazione di ogni senso che un discorso logico. Come spiegarsi, del resto, l’incessante intrecciarsi dei vari registri: il letterale e il simbolico, il sacro e il profano, il concreto e il mitologico, l’animale e l’umano? O come intendere il ricorso a titoli che sembrano moltiplicare la possibile lettura di ciascun lavoro e aprirlo a infinite interpretazioni? Ed è così che avviene anche negli ultimi lavori di Pllana: veri momenti di vita “congelati”, oscuri, storie senza contesto, scene che portano in luce sovrimpressioni, incroci, incastri. Oltre ogni apparente ordine e fine. Precarietà e meraviglia attraversano anche i dipinti di Antonio Bardino (Alghero, 1973; vive a Udine). Bisogna “lasciarsi andare”, dice l’artista, perché “l’immagine si fa da sola”. Il suo, è un mondo che sorge per leggeri sfioramenti, contaminazioni, impurità, segni radianti nello spazio. È un approccio al visibile naturale, quasi a toccarne l’anima, l’immensità, la profondità. Non, certo, per ricalcare fedelmente il reale, ma per ripercorrere l’esperienza della percezione in tutta la sua complessità fisica e psichica. È la magia di un segno (di una macchia, di un colore) che libera il proprio spirito per sorprendere la leggerezza di una materialità ormai privata del proprio corpo e colta nella sua essenza espressiva. Ma anche Bardino non manca di scattare foto. Anche lui ha bisogno di fissare l’immagine, di fermare il tempo. Solo così, poi può sensibilizzare la materia e arricchirla di una vibrazione viscerale ed enigmatica. Tutti e tre gli artisti di “Beyond Painting 2” sembrano aver la necessità di rimandi, di ancoraggi con altri media, per immergersi ancor più a fondo nella sintassi della pittura. Non si tratta più di realizzare immagini da contemplare, ma di creare immagini problematiche, inquisitorie, ambigue, cariche di curiosità e aspettative. Bisogna occupare spazi imprevisti, aprirsi verso discorsi mai affrontati. In altre parole, elaborare messaggi inediti, capaci di cogliere le istanze del presente. E, quindi, di essere sempre al principio delle cose e dei fatti. In questo modo la pittura non è più anacronistica, come spesso si dice, è ancestrale; non è più inattuale, è perennemente originaria. DI SEGUITO IL LINK PER ACCEDERE AL CATALOGO: https://www.lagiarina.it/wp-content/uploads/2019/05/Catalogo-completo-Beyond_Painting-low-1.pdf

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BEYOND THE PAINTING 1

Mostra n. 131 TITOLO: BEYOND THE PAINTING 1 ARTISTI: GIANLUCA CAPOZZI – ARIANNA MATTA A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 20 OTTOBRE 2018 – 10 GENNAIO 2019 INAUGURAZIONE: SABATO 20 OTTOBRE, ORE 18.30 – 21.00 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA ORARIO: DAL MARTEDÌ AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO) Già il titolo della mostra “Beyond the painting” suggerisce un termine che si scosta dalla parola “pittura”, che ha in sé un che di antiquato, di logoro (anche perché inflazionato). “Painting” sembra invece indicare qualcosa di aperto, in movimento, in tensione. Una sfida che viene giocata sui tempi lunghi di uno sguardo che attraversa epoche, storie, leggende. Per approdare sulla tela stratificato (o rarefatto), ma capace di creare un’atmosfera sospesa, indefinibile. O, meglio, non finita, come arrestata sulla soglia dell’immagine, del suo presagio o della sua eclissi. Ogni soggetto è lì, sempre sul punto di scomparire e lasciare il posto alla sua possibilità di reinventarsi. E se un tempo lo scopo principale della pittura era quello di rappresentare il mondo, di restituire la natura e, più avanti, quello di riflettere sui suoi stessi procedimenti, ora essa sembra esibire una nuova curiosità nello scontrarsi con le “cose”, nel narrare e nel narrarsi in mezzo ad esse (e non più di fronte ad esse). Non ha più modelli né riferimenti a cui richiamarsi. Perciò essa dà vita a immagini dove i frammenti (di memoria individuale o storica) si combinano in accostamenti inattesi e suggestivi. È così nei dipinti di Gianluca Capozzi (Avellino, 1973), un’autentica proliferazione di sagome dalle fattezze banali confuse con i profili di noti uomini politici che sembrano sorgere dal passato prossimo. Il tutto tirato via da “grossolane “passate di pennello, da schizzi non ritoccati, non ripresi, non rilavorati; e, specialmente, il tutto avvolto da irridenti apparizioni fumettistiche, come a voler trattare “alla stessa maniera” il mondo alto e il mondo basso, nobili e plebei. È un frenetico fermentare di trionfi e stracci, un complicato, caotico, intricato movimento di arabeschi, quello di Capozzi. Ma che c’è oltre il suo desiderio di vedere con la pittura, cosa suggerisce in lui il ”Beyond” del titolo? Forse proprio ciò che sta al di là della visione, il disvelamento di quelle che sono le potenzialità latenti nella pittura stessa. È come se essa non si limitasse a mostrare il suo dispendio profuso e smisurato, ma interrogasse l’osservatore e lo invitasse a risolvere quel rebus visivo che in qualche modo rispecchia la nostra epoca contemporanea caratterizzata dal flusso inarrestabile della realtà virtuale e della tecnologia. E, simile a un’immagine in cui transitano molte immagini, è anche il risultato della pratica pittorica di Arianna Matta (Roma, 1979). Pure lei insegue uno scenario slogato, lacerato, moltiplicato, e non perde volutamente tempo a integrarlo in un insieme unificato o a incorporarlo in una muraglia che fa massa, blocco. La sua è piuttosto la tenace volontà “di dar figura, di figurarsi in tutti i tempi e in tutti i luoghi, passando attraverso di essi” (A. Zambrano). Matta non guarda tanto alla vita in sé, quanto a ciò che sopravvive o a ciò che nasce attraverso i suoi piani allucinati, le sue insolite giustapposizioni, le sue azzardate linee spaziali. Le sue superfici sono come i frame di un film: ti portano in continuazione in luoghi diversi, ma soprattutto in luoghi che non si conoscono ancora (o non si conoscono più). E, anche quando lei dà l’impressione di lasciar intravedere vestigia o resti di mondo, non lo fa per documentare dati reali, ma piuttosto per rivelare il loro inarrestabile dissolversi e sparire: il loro divenire come sfuggenti “madeleine” proustiane. Capozzi e Matta. Due artisti che sembrano prediligere un’immagine rotta, sporcata, disorganica. Un’immagine sempre sospesa tra realtà e sogno, tra forma e informe. Una posizione sottile, precaria, che però allerta la percezione e invita chi guarda a un atto di ricomposizione. Ma che, in fondo, lascia liberi di decidere dove e quando fermarsi ed essere. Magari per interrogarsi sugli infiniti aspetti che lavorano dentro le immagini e la loro successione. Perché, qui, la pittura non è solo una superficie piatta su cui si stende il colore, ma una nuova, possibile, forma di esperienza visiva. DI SEGUITO IL LINK PER ACCEDERE AL CATALOGO: https://www.lagiarina.it/wp-content/uploads/2019/05/Catalogo-completo-Beyond_Painting-low-1.pdf

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THEATRUM

Mostra n. 130 TITOLO: THEATRUM ARTISTI: CLARA BRASCA – ERNESTO JANNINI – ADRIANO NARDI A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 19 MAGGIO – 15 SETTEMBRE 2018 INAUGURAZIONE: SABATO 19 MAGGIO, ORE 18.30 – 21.00 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA ORARIO: DAL MARTEDì AL SABATO 15.30 – 19.30 (E SU APPUNTAMENTO) “Se il teatro ha una funzione è quella di rendere la realtà impossibile. Non mi interessa la riproduzione della realtà sulla scena. Mi interessa il contrario, difendere la scena dalla realtà, portare in scena un’altra dimensione, un altro spazio, un altro tempo”. Così scriveva il drammaturgo tedesco Heiner Müller. Ma cosa succede se questa “scena teatrale” viene portata in una galleria d’arte e se sipari, tende veneziane, fondali dipinti prendono il posto di quadri, fotografie, sculture? È il teatro che sparisce nello spazio espositivo o lo spazio espositivo che si teatralizza? È la macchina scenica che sperimenta la dimensione dell’arte visiva o l’arte che si rifà alle regole dello spettacolo? Ma perchè non pensare a dei rapporti fecondi, fluidi, interconnessi tra i due linguaggi? In fondo le avanguardie storiche e la successiva stagione degli happening e delle performance hanno portato a palcoscenici fuori dagli spazi canonici: nelle strade, nelle piazze, nella natura. Mentre l’arte si è fatta sempre più scenografica, comportamentale, capace di immaginare e sperimentare nuovi mondi possibili: di creare opere-eventi, luoghi-eventi che si connettono tra di loro. Così la mostra “Theatrum” non intende portare in galleria le componenti classiche del luogo teatrale (palcoscenici, quinte, “golfi mistici”): non si sofferma ad analizzare il funzionamento dell’apparato scenico, smontandone gli ingranaggi e studiandone le possibili varianti. Ma fa delle proprie stanze un teatro, un mondo a parte, una combinazione di maschere, specchi, doppi fondi. E ne sono una chiara testimonianza i lavori dei tre artisti in mostra. Lo sono le grandi carte di Clara Brasca, in cui sembrano coesistere sulla stessa superficie materia e smaterializzazione, ritratti ideali che vengono dalla profondità della storia e fregi che rigenerano, restaurano il perduto, per fargli riprendere il volo (la vita). Ma lo è anche il grande sipario di Adriano Nardi (“Teatro di guerra”), dove l’artista romano cerca di dar corpo a un’immagine tenebrosa della distruzione della città di Goutha in Siria. Qui lo sguardo dà l’impressione di scavare letteralmente nella materia e la pittura di farsi tormento, interrogazione, rottura. Tanto che l’energia del gesto pareggia le nozioni di scena e tela, di pittura e teatro. Più complessi gli interventi di Ernesto Jannini che opera sul concetto di “soglia”, come volesse evidenziare quel “non-luogo” che rimane sempre il teatro, quell’ altrove che ha a che fare con il sogno o con l’inconscio. Egli dipinge una sorta di teatro delle marionette (“Gran Torneo”), avvolto da un sipario semovente o un viso su tavola con davanti una tenda veneziana (“Pulcinella robotico”). Egli ama il bilico, lo sbilanciamento, il limite, al di là del quale può avverarsi qualsiasi avventura, supplizio o frode. Ma si dirà: nessun testo, nessuna regia, nessuna scenografia può sostituire la presenza fisica dell’attore. Il corpo è l’essenza stessa del teatro. Esso si agita, è vivo, fino a quando la rappresentazione ha luogo. Ma davvero, se manca la recita, tutto diventa museo, arredo, cornice? Davvero se si spengono le “luci della ribalta”, tutto si arresta e rientra nei territori del banale e del quotidiano? O non si realizza piuttosto un inatteso sortilegio: e cioè che lo spettatore diventi attore, che colui che ascolta nel buio della platea, s’inventi parole segrete, movimenti enigmatici, occhi turbati? Non guarda e insieme è guardato? Non entra ed esce, pure lui, dallo spazio della recita? Non si trasforma in un “personaggio in cerca d’autore”? Allora forse “sperimentare” in galleria, è già rito teatrale, atto performativo, esibizione scenica. THEATRUM  30.06. 2018 – h 19:00, presentazione del catalogo. A seguire una breve pièce teatrale “I Canti di Eso” di Ernesto Jannini – artisti CLARA BRASCA ADRIANO NARDI ERNESTO JANNINI  – a cura di Luigi Meneghelli  Sabato 30 giugno (ore 19) verrà presentato alla Galleria La Giarina il catalogo della mostra “Theatrum” a cura di Luigi Meneghelli, che resterà aperta fino al 15 settembre 2018. Le opere esposte si rifanno tutte a quello spazio magico e insondabile che è il teatro. Ma senza volerne svelare i segreti, quanto invece per togliere il velo di complicità e di abitudine che di solito ci offusca la vista e spiegare, aprire lo sguardo su tutto quel che compare su un palcoscenico: sipari, fondali, quinte, doppi fondi. I tre artisti in mostra (Clara Brasca, Adriano Nardi, Ernesto Jannini) sembrano allestire una sorta di scenografia in cui non si danno vere azioni, girotondi di parole e di personaggi. Ma è proprio questa scena che rimane vuota a offrirci l’idea di un cantiere pronto ad essere vissuto, abitato, di una costruzione aperta ad accogliere infinite storie e destini.  È così con le grandi carte di Brasca, su cui l’artista dipinge “volti ideali” di donne che rimandano alle protagoniste delle tragedie greche: Antigone, Medea, Elettra. Ed è così anche con il grande “sipario” di Nardi con l’immagine della distruzione di Goutha (Siria), ottenuta attraverso una pittura sincopata, straziata. Più stratificati gli interventi di Jannini, giocati sul concetto di “soglia”, dove ogni scena diventa un non-luogo, uno spazio in cui la visione è differita da veli e tendaggi (“Gran Torneo”, “Pulcinella robotico”). I suoi lavori sembrano evidenziare davvero quel particolare movimento di familiarità e distanza, avvicinamento e separazione che contraddistingue anche il linguaggio teatrale. Ma in un video egli arriva perfino a servirsi di un immagine della Storia dell’Arte (e precisamente del “Cristo morto con quattro angeli” del Bellini): qui con un ago penetra la ferita del Salvatore, quasi a simboleggiare la volontà di toccare il sacro, l’inconoscibile. A chiudere l’incontro sempre Jannini darà vita ad una performance dal titolo “I canti di Eso” (dove Eso sta per “Ente sonoro”). Accompagnandosi con la chitarra egli parlerà di riti, di danze, di cacce, di pitture che attraversano i secoli. Ma senza badare al ritmo narrativo, quanto alla voce che si fa,

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REBIRTHING

Mostra n. 129 TITOLO: REBIRTHING ARTISTI: DANIELE GIUNTA – ALBERTA PELLACANI – SILVANO TESSAROLLO A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI TESTI DI: LUIGI MENEGHELLI, ANDREA LERDA PERIODO: 10 FEBBRAIO – 28 APRILE 2018 INAUGURAZIONE: 10 FEBBRAIO, ORE 18.30 – 21 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA Orario: dal martedì al sabato 15.30-19.30 (E su appuntamento) “Dimmi quando tornerò a vivere / dimmi quando ti respirerò”. Così cantavano gli Skillet, un gruppo rock di Memphis, nel 2006. E il titolo della canzone era proprio Rebirthing, come quello dato alla mostra alla Galleria La Giarina. Ri-nascere, riscoprire l’arte del respiro, la voce del silenzio, il lato nascosto delle cose. È fare esperienza del mondo, esserne di continuo attraversati. Affermare una pratica che va ben oltre il noto verbo di Descartes: “Cogito, ergo sum” (Penso, dunque sono): e cioè “Sento, dunque sono”. È sostenere che la condizione umana non è solo spirituale, ma anche corporea. Perchè il corpo è profusione del sensibile; è inscritto nel movimento delle cose e si mescola a esse con tutti i suoi sensi. Non si può dividere con un taglio netto soggetto e oggetto, interno ed esterno. Noi non guardiamo da fuori, ma da dentro. È vero: è la vista che (soprattutto oggi) proietta l’uomo nel mondo, ma lo mette a contatto solo con la sua superficie. Gli permette di riconoscere le cose, ma non di conoscerle, di interpretarle, di viverle. La vista ha bisogno di tutti i sensi per esercitarsi nella sua pienezza. “Vedo con occhio che sente, sento con mano che vede”, ha scritto Goethe in “Elegie romane”. Come chiamare questo sopravanzamento o sconfinamento sensoriale? Palpazione oculare o occhio aptico? In fondo, si tocca con gli occhi come i ciechi vedono con le mani. Ebbene, gli interventi dei tre artisti invitati a Rebirthing (Alberta Pellacani, Carpi, 1964; Silvano Tessarollo, Bassano del Grappa, 1956; Daniele Giunta, Lago Maggiore, 1981) testimoniano una sorta di brama esplorativa, di bisogno di immersione desiderante nella materia del mondo. Pellacani con i suoi Palinsesti (di Mantova, di Venezia) sembra rivisitare la storia delle città, creando una visionaria geografia fatta di consistenze fittizie, echi, spessori d’aria. Impiegando una sorta di superficie specchiante “filma” il mondo che ci circonda e lo porta a sciogliersi e a ricomporsi, come in un sogno ad occhi aperti. Il suo è uno sguardo che conosce la misura del non finito, anzi dell’indefinito, di ciò che è sospeso, cangiante, metaforico (come in Changing) o al limite della visibilità (come in alcuni disegni appena abbozzati e percepibili solo al buio). L’operazione di Tessarollo invece dà l’idea di un ritorno a una naturalità pura, come quella auspicata da Lévi-Strauss o dagli scritti di Pasolini. Egli vuole far avvertire l’architettura segreta sottesa a elementi come alberi, rami, campi di grano. Gli interessa la scoperta, la presentazione, l’insurrezione del valore magico e meravigliante delle materie viventi, come la terra, la cera, la paglia. Fino a realizzare un grande telero (Sine sole sileo, 2017), dove sparge sulla superficie polvere di torba, come fosse una metaforica semina, capace di unire terra e cielo, profondità e altezza. Giunta, infine, arriva ad abbandonare ogni cosa (naturale o artificiale che sia): si trasferisce perfino nel Verbano (VCO), dove il mondo non è quasi più mondo, ma un luogo in cui perdersi, “uno spazio infinito” in cui è necessaria “un’attenzione altra” (come dice lo stesso artista). Lì, “l’arte diviene una sorta di condizione sperimentale in cui si sperimenta il vivere” (J.Cage): lì si è disponibili a tutti i fatti della vita: al passare del tempo, al costruirsi una casa, all’accendersi un fuoco, al praticare l’apicoltura (come Giunta ci mostra nel video Build from Flowers, 2017). A contare è proprio il mistero dell’essere (e dell’esistere), l’edificio della creazione, il tempio del mondo. Ovvio che la Galleria più che un semplice spazio espositivo, divenga una dimensione di esperienza, arte, lavoro, amore. Senza prodursi in proclami ideologici o in discorsi legati all’ecologia, gli artisti intendono farci sentire, conoscere, gustare il sapere-sapore di un’esistenza creativa. Il loro è un viaggio iniziatico all’origine delle cose. È un immergersi nel loro segreto, un “rebirthing”, un rinascere e dimorare in esse.   Di seguito il link per accedere al catalogo: https://www.lagiarina.it/wp-content/uploads/2019/05/Rebirthing-catalogo-definitivo.pdf

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30 YEARS / 30 WORKS

Mostra n. 128 TITOLO: 30 YEARS / 30 WORKS ARTISTI: E. BAJ – V. BENDINI – M. BERMAN – A. BIANCONI – C. BRASCA – D. COLTRO – C. COSTA – W. DELVOYE – S. DIENES –        J. DUPUY – K. FRIEDMAN – F. GARBELLI – D. GIRARDI – D. GIUNTA – A. HANSEN – M. HENRY – E. JANNINI – T. KANTOR –    MAN RAY – A. MONDINO – C. MOORMAN – A. NARDI – H. NITSCH – B. PATTERSON – S. PICATOSTE – L. RAFFAELLI – T. SCIALOJA – K. SCHWITTERS – D. SPOERRI – S. TESSAROLLO A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 07 OTTOBRE – 27 DICEMBRE 2017 INAUGURAZIONE: 07 OTTOBRE, ORE 18.30 – 21 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA Orario: dal martedì al sabato 15.30-19.30 (E su appuntamento) Giusto 30 anni fa la Galleria La Giarina dava avvio alla sua attività espositiva con una rassegna legata al cinema fantastico, “Fantasy Film Expo”. Una raccolta di cimeli di ogni tipo: fotografie, manifesti, copioni, sceneggiature, maschere, truccature, mani mozze e denti finti, astronavi e dinosauri. Una specie di “camera delle meraviglie”, dove gli oggetti raccolti trasformavano lo spazio, facendolo diventare un luogo magico, misterioso, fatato, un universo parallelo dove le cose parlavano, ma usando una lingua segreta, tutta da svelare, tutta da decifrare. Era l’inizio di una lunga avventura fatta di viaggi iniziatici, incontri con guide mitiche, superamenti di prove, discese agli inferi e resurrezioni prodigiose. Quasi un itinerario paradossale, dato che si parla di una galleria e, come tale, di un luogo con precise regole, programmi, bilanci. Ma se la direttrice dello spazio (Cristina Morato) è una figura che si è formata investigando le mille anime di Alberto Savinio, un artista in cui si conciliano sacro e profano, mito e aneddoto, sublime e farsesco, si può capire anche come le esposizioni siano state spesso la ricerca di accostamenti incongrui e inattesi, di relazioni celate e invisibili. Mai inseguimento di un orizzonte definito, tirato con il “filo a piombo”, mai vocazione per simmetrie, corrispondenze, combinatorie preordinate. La Galleria ha sempre aspirato a “trasportare a volo (il visitatore) in un altro mondo, in un altro livello di percezione” (come avrebbe detto Italo Calvino). Più volte si è trasformata letteralmente in uno spazio precario, aperto a trasfigurazioni fantastiche: come nel caso della stanza dipinta di viola e iperdecorata di R. Zwillinger (1990) o della piscina con tanto di “cadavere galleggiante” di Gligorov (2001); nello studio di un immaginario scultore dell’ottocento di Manfredo Beninati (2010) o nel più recente “Bivacco” ligneo di Daniele Girardi…È così che l’austero palazzo del ‘500, sede della galleria, da luogo che ospita opere si è tramutato in opera esso stesso, da spazio è diventato materia. Ma un altro incontro, in questo caso con un personaggio leggendario, ha influenzato le scelte e il modo di pensare e presentare l’arte da parte della gallerista: ed è stato quello con Arturo Schwarz, studioso di Dadaismo, Surrealismo, Kaballah, Alchimia, Arte tribale, ecc. La conoscenza delle Avanguardie (e dei saperi alchemici) ha portato al bisogno di frantumare ogni omogeneità rappresentativa, a disarticolare il mosaico del visibile in tanti fotogrammi. Niente prospettive uniche, niente mito nietzschiano del “grande stile”. Niente sistema fisso, ma sentieri provvisori, transitori: è quanto accaduto quando è stata affrontata la questione del “corpo come linguaggio artistico” (“Shape your body”), un’operazione durata due anni (1993/1994) e che ha messo a confronto le azioni provocatorie e sovversive degli artisti della Body Art storica con le esperienze più giovani che esibivano una sinistra allegrezza mista a un’atmosfera da favola; come è quanto accaduto quando si è indagata la voce innominabile degli scarti (“Il destino delle cose”, 2015), mettendo in scena gli artisti del Nouveau Réalisme, gli “imballaggi” di Kantor, la poesia del frammento di Schwitters e, accanto, lo sguardo pieno di seduzione e straniamento delle nuove generazioni, il loro aggrapparsi agli oggetti abbandonati come fossero reminiscenze, epifanie rivelatrici, cose che tornano a vivere sotto un altro segno. È diventato sempre più un modo di affrontare il mondo dell’arte come un progetto destinato a rimanere incompiuto, anzi un modo che continua a ridefinire l’ordine delle cose, dei luoghi, dei tempi. E anche questa mostra “30 Years / 30 Works” non intende fermare la storia, ricapitolare le tante stazioni attraversate. Sarebbe un elenco sterminato (127 le esposizioni personali o collettive, centinaia gli artisti passati dalle stanze della galleria). Né, tanto meno, intende essere una celebrazione o una rievocazione: fosse così, avrebbe il senso del rito, della cerimonia commemorativa. Mentre i trenta artisti scelti documentano un intreccio di linguaggi, di piani temporali lontani, di tecniche e di strumenti eterogenei. Le loro opere si sfiorano, si confrontano, si specchiano, facendo sorgere imprevisti significati. Passandovi in mezzo, assistiamo alla migrazione di motivi, di ipotesi, di composizioni da un artista ad un altro, a un altro ancora. In questo festoso incontro qualsiasi logica di sviluppo lineare è saltata, in favore di una cartografia eccentrica. Qui vige la legge del desiderio, della mobilità, della visionarietà. E ogni visitatore è invitato a farsi artefice del proprio sogno. Con la leggerezza e il disincanto degli artisti Fluxus, tanto legati alla galleria, i quali sostenevano che “tutto è arte e tutti possono farla”. Ironicamente, democraticamente. Di seguito il link per accedere al catalogo: https://www.lagiarina.it/wp-content/uploads/2019/05/catalogo-definitivo-30years-30works_gen18.pdf

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LUXURY

Mostra n. 127 TITOLO: LUXURY ARTISTI: RHONDA ZWILLINGER – ARCH CONNELLY – ANDREA BIANCONI A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 8 APRILE – 30 GIUGNO 2017 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA Orario: dal martedì al sabato 15.30-19.30 (E su appuntamento) “Guardo fuori dal mio studio e vedo tutti i tabelloni luminosi, vedo la porta di un ‘Sexy Shop’ fatta a forma di serratura enorme: questa è New York, questa è la nostra storia dell’arte”. Così in un’intervista Arch Connelly (Chicago, 1950; New York, 1993). Erano i frenetici anni ‘80 dell’Est Village, gli anni in cui l’artista si lasciava trapassare dagli eventi e dalle cose e insieme si prolungava e coesisteva con essi. “Essere ovunque nel mondo e avere il mondo dentro di sé”, era un altro degli slogan del tempo. Nessun divieto, nessuna tecnica privilegiata, ma solo un flusso caotico di immagini che si inseguono, di oggetti che diventano una vera espansione epidermica del soggetto, un prolungamento sensoriale del suo corpo nel mondo. Così gli specchi, i tondi, le cornici di Connelly appaiono come inondati da una marea di elementi superflui e gratuiti come strass, perle finte, ricami, residui materici argentati, che trasformano e stravolgono ogni idea di funzione e uso. A contare sembra che sia l’iperdecorazione, l’espressione dell’artificio: una sorta di visione infantile e giocosa della realtà. Anche il lavoro di Rhonda Zwillinger (New York, 1950) si fonda sull’eccesso di un ornamento che dilaga, fino a riempire tutto, a sommergere ogni oggetto come una schiuma avvolgente e abbagliante. Ma mentre Connelly rimane legato alla bidimensionalità della parete, il bizzarro mondo della Zwillinger (attualmente in mostra al Museum Boijmans di Rotterdam) si appropria dello spazio, lo trascina nel suo sogno eccentrico e romantico. È un’opera composta da borsette e scarpe, da pareti decorate con motivi floreali, da tavolinetti con piedestallo a tortiglione, da quadri con una pittura psichedelica che spesso replica motivi della Storia delle Immagini. Le perline di vetro, le paillettes, le palline di plastica che ricoprono ogni elemento compiono un’operazione anticlassica, con l’intento di degradare i valori “alti” dell’Arte in favore della banalità di massa. Ma di quest’arte che sta tra denuncia e kitsch, tra critica e irrisione, cosa è rimasto dopo trent’anni? Rivederla è ripercorrere utopie sveltamente seppellite o scoprire quanto di quest’ultima festa visiva rimane ancora di inespresso? Non è un caso che un artista come Andrea Bianconi (Vicenza, 1974) abbia ripreso in mano valigie ricolme di lustrini e di piccoli oggetti d’antan o maschere ricoperte di borchie, perle e spaghi. Egli ama cambiare continuamente la struttura dell’opera, disfarla tra le mani, moltiplicarla, dilatarla fino a farla diventare inafferrabile. Allora l’opulenza, il lusso (il “Luxury” del titolo), può trasformarsi in passione conoscitiva, in raccolta di frammenti, in romantica collezione delle cose della vita. Può diventare un modo per abbigliare il mondo, utilizzando proprio gli oggetti che il mondo stesso ha perduto o dimenticato. Catalogo_Luxury_2017

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RACCONTI DAL BIVACCO 17

 con Paolo Cognetti e Daniele Girardi Di ritorno dalle loro esplorazioni, Paolo Cognetti e Daniele Girardi portano le atmosfere della montagna e dei luoghi selvaggi alla galleria La Giarina di Verona. sabato 17 dicembre 2016, ore 18.30 In occasione della presentazione del catalogo relativo alla mostra “Bivacco 17” (a cura di Luigi Meneghelli), la galleria La Giarina è lieta di ospitare lo scrittore Paolo Cognetti per un reading tratto dal suo ultimo romanzo “Le otto montagne” (Einaudi editore), un caso editoriale tradotto in oltre trenta paesi. Nel potente romanzo di Cognetti la montagna è raccontata nell a sua scarna bellezza, dura e selvaggia, ed è al centro di incontri unici che segnano l’animo. Proprio tra i boschi e le montagne è nata l’amicizia e poi la collaborazione tra i due artisti, che in questo incontro accompagneranno gli ospiti in un emozionante dialogo tra parole e immagini. La “lettura” verrà fatta proprio all’interno del “Bivacco 17”, l’installazione site-specific dove Daniele Girardi ha ricreato in galleria uno dei numerosi rifugi frequentati nella wilderness. Paolo Cognetti (Milano, 1978). Da anni si divide tra la città e una baita a duemila metri, sul tema della montagna ha pubblicato Il Ragazzo selvatico (Terre di mezzo 2013) e con Sofia si veste sempre di nero (minimun fax 2014) è stato finalista al premio strega. Il suo blog è paolocognetti.blogspot.it Daniele Girardi (Verona, 1977). Negli ultimi anni si è dedicato al rapporto tra esperienza nella wilderness e arte visiva. Attualmente è impegnato nel progetto North Way, un ciclo di residenze nelle foreste del nord Europa. Il suo sito è www.danielegirardi.com.

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BIVACCO 17

Mostra n. 126 TITOLO:       BIVACCO 17 ARTISTI:           CLAUDIO COSTA – DANIELE GIRARDI A CURA DI:      LUIGI MENEGHELLI   PERIODO:        24 SETTEMBRE – 31 DICEMBRE 2016 INAUGURAZIONE: 24 SETTEMBRE, ORE 18.30 – 21 SEDE ESPOSIZIONE: LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA, VERONA Orario: dal martedì al sabato 15.30-19.30 (E su appuntamento) Claudio Costa (Tirana 1942 – Genova 1995) e Daniele Girardi (Verona 1977). Due artisti di generazioni diverse e di diverse modalità espressive: il primo che cerca di comprendere ciò che ci viene dal profondo, dalle stagioni trascorse, dalla vita passata e il secondo che cerca di investigare lo scorrere di un tempo di cui non conosciamo ancora le coordinate, i sensi, gli umori. “Vorrei che il mio lavoro fosse un fiume lavico che dalla foce risalga alla sorgente”, ha scritto Claudio Costa. Forse Daniele Girardi potrebbe scrivere: “Cerco di uscire dalla realtà del presente, per sperimentare un cammino quasi spirituale alla scoperta delle primordiali leggi della natura”. Due artisti lontani, ma anche vicinissimi, perché entrambi cercano di far affiorare immagini segrete, seppellite o ancora nascoste. Se per Costa la creazione è un “work in regress”, per Girardi è sempre un “work in progress”. Per entrambi, comunque si tratta sempre di esorcizzare la morte ed esaltare la vita. Lo stesso ferro arrugginito, il materiale degradato, distrutto, intaccato dagli agenti atmosferici, roso dall’uso, che impiega Costa, lascia emergere potenzialità espressive eccezionali. E le colle, i legni, le argille, le fotografie, le radiografie che potrebbero suggerire un’idea di fissazione, in realtà diventano interminabili interrogazioni, scambi, cortocircuiti visivi. L’operazione di Girardi ha qualcosa di più introverso e mentale. Consiste nella pura esperienza del camminare, del perlustrare luoghi incontaminati. Ma è proprio nell’esplorazione, nel rapporto con la natura che si realizza il suo sapere. Nel video MYR, ad esempio, egli riprende il suo procedere incerto attraverso le lande deserte della Norvegia, con i passi che esitano, perché non sanno se sotto la superficie si celino profondi strati d’acqua. Così, ogni incedere è insieme scoperta e minaccia, conquista e smarrimento. E se nella decina di lavori (su tela o su legno) di Costa sembra salire il gran fiato dei secoli per portare i suoi documenti antropologici, nelle azioni di Girardi i documenti sono l’esperienza stessa dell’agire. “Bivacco 17” è il titolo dato all’esposizione e nasce da uno dei rifugi di Girardi, che viene letteralmente ricostruito in galleria: una sorta di accampamento in cui è raccolto tutto il materiale necessario alle esplorazioni: appunti, mappe, foto, zaini, corde. Una “grotta” in cui sono radunati progetti ed evocazioni, strumentazioni e ricapitolazioni. Un po’ come nelle ”tavole alchemiche” di Costa, dove lo stato di “sonno” si mescola e passa invariabilmente a quello di risveglio e di nuova consapevolezza. Catalogo_Bivacco_17_2016

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SONATA A TRE

Mostra n. 125 TITOLO:       SONATA A TRE ARTISTA:     BERNARD HEIDSIECK – JACQUES SPACAGNA – JEAN DUPUY A CURA DI:   LUIGI MENEGHELLI PERIODO:     16 aprile – 30 giugno 2016 Bernard Heidsieck (Parigi, 1922-2014), Jacques Spacagna (Parigi, 1936-1990), Jean Dupuy (Moulins, 1925): tre testimoni delle ultime utopie avanguardistiche, come sono state la Poesia Sonora, il Lettrismo, Fluxus. Tre autori che hanno indagato il valore della parola nelle sue potenzialità implicite, quando questa ha perso il suo significato ed è rimasta come puro suono, scintilla musicale. Il loro intervento è contro il modernistico prevalere del testo scritto e stampato, per rivendicare orgogliosamente l’oralità e la ricerca fonetico-sonora quale recupero e rilancio del potere arcaico del verbo, a partire dalla grande tradizione omerica o aedica. L’opera di Heidsieck richiama la sperimentazione del Futurismo (“Le parole in libertà” di Marinetti, “I rumori plastici” di Balla). Ma si spinge ancora più avanti: in poesia rompe alla lettera la lingua; nel collage mescola frammenti verbali e visivi. L’obiettivo è quello di creare un progetto poetico, aperto alle più diverse intenzioni linguistiche e performative. Nei nove lavori su carta presenti in mostra si intrecciano testi e bande magnetiche, tracciati grafici e microcircuiti: è la visualizzazione di una sonorità virtuale, di una strumentazione elettronica che dilata “Il potere della parola”. Spacagna cerca la dimensione prima e primaria di ogni espressione umana. Come faceva Isidore Isou, scompone la parola e separa le lettere tra di loro. Ma soprattutto riempie le sue opere di una fittissima trama di segni policromi. Sia nelle grandi tele che in quelle più piccole (basate su una stampa serigrafica) ricorre ad una grafia sub-letterale, che si rifà a lingue sconosciute, inventate, ancestrali. Dupuy, da buon esponente di Fluxus, fa regredire ogni oggetto e ogni azione all’infanzia del sapere. “L’importante è che le cose siano quelle che sono”: frasi semplici, riflessioni giocose, divertissement. Qui, lo sono le tavolette di legno con ciottoli e particelle sillabiche. Soprattutto lo sono il monitor di un vecchio televisore con sopra scritto “Video ergo sum” e The Heir, un manichino con occhio bendato posto davanti ad una tela con “frasi alla deriva”. Tutti e tre gli artisti più che scrivere, compongono, come se le loro parole fossero pronte a generare letture, respiri, esperienze sonore. E non è un caso che la sera dell’inaugurazione il performer Mauro Dal Fior reciti uno dei poemi più noti di Heidsieck, Vaduz: un testo esilarante, dove la capitale di uno stato microscopico finisce per diventare il centro stesso del mondo.

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INTERROGARE LA MATERIA

Mostra n. 124 ARTISTA:  VASCO BENDINI A CURA DI:  LUIGI MENEGHELLI PERIODO:  10 OTTOBRE 2015 – 27 FEBBRAIO 2016 INAUGURAZIONE: 10 OTTOBRE, ORE 18:30 – 21 “In me vive una necessità ineluttabile di immaginarmi come spogliato ogni volta che mi trovo nel mio studio, vuoto e silenzioso, di fronte alla tela vergine. Ad ogni inizio mi gioco tutto come nel battesimo”. Sono appunti che Vasco Bendini (Bologna 1922 – Roma 2015) traccia in anni tardi, quando ha già sperimentato tante immersioni e tanti lavacri dentro l’oscura necessità della materia: quando ha già vissuto tante soste inquiete, attese millenarie, miracoli di resurrezione. Per lui, infatti, fin da principio è fondamentale l’attenzione ai sintomi, alle impronte, alle sopravvivenze, agli aliti che vengono dal profondo. Certo: compagno di strada degli “Ultimi Naturalisti” di Francesco Arcangeli (dei vari Morlotti, Mandelli, Moreni, ecc.), ma mai visceralmente coinvolto in incombenze e spessori vitalistici, quanto invece orientato a stendere “segni segreti”, che sembrano sempre sul punto di abolirsi, di dissolversi, prima che qualsiasi significato abbia avuto il tempo di “prendere”. E’ la volontà di porsi sempre al limite, nella zona dove i nostri sensi devono affinarsi e farsi quasi mediatici, telepatici per riuscire a vedere. Può trattarsi di una ricognizione spaziale, di una “visione paesistica”, dell’emergenza di un volto: tutto è invariabilmente ridotto a reliquia, a parvenza, a traccia fantasmatica. Le venticinque tele (più un immenso olio su carta) presenti in mostra costituiscono una sorta di sintetica retrospettiva. E prendono avvio dai tardi anni ’50, quando le esalazioni sfuggenti, la dialettica dell’apparire/sparire conoscono una accentuazione dell’atto gestuale. L’immagine ora “si forma, si amplia, esalando in soffocanti baleni, trasudando in febbri dolenti” (ancora Arcangeli): anzi, si può dire che essa si identifichi proprio con i movimenti stessi della materia, quasi a documentare la volontà da parte di Bendini di maggior partecipazione, di intervento immediato, di focalizzazione dell’attimo in cui l’opera si compie. Lo dice lo stesso artista “Quando dipingo mi abbandono interamente a ciò che vado man mano facendo”. Non c’è più distinzione tra processo psichico e materia. Il pensare, il sentire coincidono con l’agire. Senza però con questo scivolare in un furente e cieco automatismo, in un incontrollato intervento del caso, quanto piuttosto facendo venire a galla memorie perdute, polveri del tempo passato, dettagli rimossi. Ed allora smarginature, erosioni, chiazze lucenti, stanno ad indicare la presenza di qualcosa che è poco definito ma tuttavia incombente, certo, ben radicato. E’ consapevolezza del fare, facendo; è analisi del processo stesso della pittura e del riconoscersi in essa, è produrre arte come autobiografia. A metà degli anni ’60 Bendini sembra invece dichiarare la decadenza del quadro e ricercare una sempre più essenziale concentrazione di sé in oggetti, azioni, processi. Nasce una nuova attenzione alle cose che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana: sedie, telai, celophane, specchi. Ma non si tratta di enfatizzare il valore estetico dei materiali, bensì di produrre una somma di valenze psicologiche e di stimolazioni sensoriali. Soprattutto si tratta di mostrare elementi “poveri”, interventi minimi, quasi sul punto di scomparire, ma soprattutto capaci di allargare la nostra soglia di percezione e di aprire un nuovo rapporto tra l’io e il mondo. In mostra, è vero, ci sono solo opere bidimensionali. Ma le precedenti esperienze oggettuali (o corpotamentali) portano dentro la superficie anche materiali extrapittorici, come paglia, colle, polveri di rame e d’argento. Così materia e colore accolgono dentro l’opera le cose esterne, come a mettere alla prova la tela o a far uscire il quadro dal quadro. “Si sente che l’opera ora offertaci, scriveva Renato Barilli, è ancora gonfia di una quantità d’azione, soltanto provvisoriamente schiacciata, ma pronta a riesplodere, a emanare di nuovo una sua profondità”. Si va oltre la dimensione storica della tela, per farne un supporto su cui può essere inserito perfino lo scarto o il rifiuto, ossia le tracce stesse del proprio vissuto. Nei lavori successivi Bendini pare liberarsi da ogni sentimento di precarietà umana e da ogni ansia esistenziale per “dare voce” ad una pittura che si fa ampia, indefinita, aperta: vera leggerezza d’aria ed equilibrio instabile ed estremo del colore, vera propensione ad una dimensione cosmica ed armonica della visione. Gli stessi titoli ineffabili che l’artista bolognese impiega funzionano alla pari di indicazioni interpretative: Dove la luce ha luogo, l’immagine accolta, ecc. E’ come se la pittura, da eco trasfigurata di un mondo casualmente incontrato, si facesse pura eco di un paesaggio dell’animo. Ma, tra tante affermazioni di varietà e mobilità gestuali, emergono anche quelle di “luogo” e di “accoglienza”. E, questo, perchè non siamo mai di fronte ad una stesura unica, ma ad una serie di stratificazioni o velature cromatiche, ad un’idea di pelle o membrana, se non addirittura di corpo, anche se appannato, dissolto, continuamente trasceso. In fondo Bendini rimane sempre un “pittore di senso e di sensi, di un eros carnoso e carnale, o incarnato”, come fosse un segno di epifania celeste. Catalogo_Interrogare_La_Materia_2015

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FluxCONZert

Omaggio a Francesco Conz PERFORMANCE/CONCERTO su azioni/partiture di George Maciunas, George Brecht, Philip Corner, Yoko Ono, Mieko Shiomi, Giuseppe Chiari, Ken Friedman, Ben Vautier, Alison Knowles ed altri artisti Fluxus rivedute, adattate e performate da MAURO DAL FIOR La galleria La Giarina che, a partire dal 1991 con la prima mostra “Fluxartisti” fino all’ultimo evento in ordine di tempo del 2012 “Fluxus Jubileum”, ha ospitato in diverse occasioni i più importanti protagonisti storici di FLUXUS, presenta il poeta totale Mauro Dal Fior in un concerto/performance ispirato ad azioni e partiture di vari autori rappresentativi del movimento. Dal Fior che già dagli anni ’70 inizia a scrivere poesie e lavora in gruppi teatrali, realizza i primi esperimenti di Poesia Visiva e Concreta negli anni ’80 e avvia lo studio delle Avanguardie Storiche e del movimento FLUXUS che lo porteranno successivamente alla “Poesia Totale”. La serata, introdotta da Patrizio Peterlini, direttore della Fondazione Bonotto, è un omaggio a Francesco Conz (Cittadella, 1935 – Verona, 2010), fondamentale figura di editore e collezionista di quella che è ritenuta l’ultima Avanguardia del Novecento. Il suo Archivio a Verona è stato un punto di riferimento per tutti gli appassionati e studiosi di neoavanguardie. In oltre trent’anni di attività ha ospitato i più importanti artisti internazionali come Joseph Beuys, Hermann Nitsch, Allan Kaprow, Daniel Spoerri, Lawrence Ferlinghetti. Ha lasciato un grande patrimonio di documenti, opere, fotografie, libri, alcuni ancora da pubblicare come il poderoso “La Livre. An Homage to Ezra Pound”, progetto che ha coinvolto dal 1987 più di sessanta artisti delle avanguardie poetiche internazionali.

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UTOPIE PERIFERICHE

Mostra n. 123 UTOPIE PERIFERICHE ARTISTA:         LUISA RAFFAELLI A CURA DI:      MICHELE BRAMANTE PERIODO:        28 MARZO 2015 – 20 GIUGNO 2015 Il 28 marzo si inaugura la mostra personale di Luisa Raffaelli “Utopie Periferiche”, presso la Galleria La Giarina di Verona che presenta fotografie, video e installazioni dell’artista impegnata in una ricerca al confine tra arte e antropologia. Disobbedendo alle linee guida del pensiero contemporaneo, che, in fondo, impone di non sognare troppo, Luisa Raffaelli gioca, al contrario, con le proprie utopie. L’interesse specifico del suo immaginario è centrato sulle condizioni ambientali e abitative, nonché sul loro governo attraverso razionalità e costruzione che codificano il rapporto tra spirito e natura, tra l’uomo e il proprio ambiente e, ancora, tra soggetto e soggetto. Nelle zone periferiche, campo nevralgico degli esperimenti di Raffaelli, le possibilità si moltiplicano, la lontananza dal controllo centrale diminuisce il grado di sicurezza, ma gli eventi diventano più imprevedibili e fecondi. A partire da cellule abitative che innescano il momento genetico della struttura, Raffaelli sviluppa un composito tessuto extraurbano che integra nella sua evoluzione tutto il materiale utile alla sopravvivenza, allo scopo di soddisfare i bisogni elementari di una cittadinanza ibrida. La lucida utopia urbanistica di Luisa Raffaelli si misura, così, con la necessità di equilibrare le tensioni tra l’impulso spaziale predatorio e il suo controllo, di governare le libertà disciplinando le pressioni del desiderio e del bisogno, ma concedendo, allo stesso tempo, spazi per la crescita spontanea. L’installazione presentata in occasione della mostra ramifica attraverso gli spazi della galleria, nutrendosene e colonizzando pareti e interstizi. Fotografia e video si mescolano al bricolage bioarchitettonico per manifestare desideri soggettivi e illustrare le variabili dei rapporti relazionali. Catalogo_Utopie_Periferiche_2015

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IL DESTINO DELLE COSE

Mostra n. 122 ARTISTI:  M. ANTONIONI (omaggio) – F. ARMAN – A. BIANCONI – E. BORGHI – A. CARGNELLI – CÉSAR – F. FAVELLI – FISCHI & WEISS – C. FOGAROLLI – D. GIRARDI – T. KANTOR – K. SCHWITTERS – D. SPOERRI A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 15 NOVEMBRE 2014 – 28 FEBBRAIO 2015 Se un tempo, nella vita dell’uomo, gli oggetti avevano una presenza stabile e quasi mitica, se la loro produzione e il loro uso erano un tutt’uno con il loro significato, nell’età moderna ogni oggetto diventa riducibile ad un puro apparato funzionale. L’avanzamento tecnologico lo spinge verso una totale banalizzazione, verso quella dimensione dell’ “usa e getta” che non lascia più nessuna traccia nella nostra memoria e nel nostro essere. Ebbene, lo sguardo che l’arte rivolge verso le cose, proprio a partire dalla modernità, sembra avere come obiettivo principale quello di ridare alle cose stesse un senso, una storia, una individualità. E, in alcuni casi, addirittura una dimensione di magia e di mistero. Se si prende ad esempio la figura di Schwitters, che raccoglie brandelli di vita (biglietti del tram, fili metallici, spaghi, ecc.) accumulati secondo la legge del caso, si capisce come anche i rifiuti possano diventare frammenti carichi di memoria e di poesia. Con l’artista polacco Kantor e i suoi “Ombrelli” (o i suoi “Emballages”) l’oggetto si contrae, si distende, comunicando quasi un’idea di energia, di tensione, di movimento. E’ un po’ come se si cercasse di richiamarlo in vita, di scuoterlo dal torpore nel quale è immerso, causa l’uso o il consumo. Gli esponenti del “Nuovo Realismo” (Arman, César, Spoerri, ecc.) propongono invece un inedito accostamento al reale, invitandoci a percorrerlo liberamente, e a insinuarci nelle sue pieghe, nei suoi risvolti. Resti e residui diventano spazi aperti, in cui è messa in scena la rovina, ma in cui la stessa rovina diventa materiale vitale e creativo. Tutt’altro approccio alle cose presentano le nuove generazioni. Oggi si va sempre più verso una visibilità totale e illusoria e ogni elemento materiale risponde solo a un bisogno di immaginario, di fantastico. Come recuperare la perdita materiale, il “sapore delle cose concrete”? Forse non resta che la memoria. Anche perchè, come ha scritto W. Benjamin: “Per la storia nulla di ciò che è avvenuto dev’essere mai dato per disperso”. E allora si possono costruire propri mondi oggettuali, che raccolgono, alterano, rovesciano il mondo conosciuto, come se si trattasse di uno scavo nelle profondità del tempo . Le cose così “diventano inesauribili ricettacoli di commemorazione”, materie che sopravvivono, passato che continua a lavorare appassionatamente anche nel presente. E’ così per Christian Fogarolli che, nella sua installazione Blackout ci introduce in una sorta di “museo delle miserie”, messo insieme in una vita intera. Le cose (una cassapanca scrostata, un armadio cadente, vecchie foto) finiscono per diventare inseparabili, indistinguibili da chi le ha raccolte. Ed è così anche per quel panneggio fatto da mille corde che scendono dal soffitto di Andrea Bianconi: panneggio di chincaglierie, dove ogni identità si perde per far posto a infinite combinazioni, ad una specie di “caos del cosmo”. Come è così per il video di Alessia Cargnelli che documenta le insignificanti tracce di un luogo dimenticato di Venezia. Una sequenza di immagini virate al porpora, in cui si alternano i contorni tremanti di oggetti, architetture, fasci di luce radente. Una paradossale “archeologia del presente”. Più mentale è il discorso di Flavio Favelli: egli lavora sul senso del vissuto, del quotidiano, del privato. In Lettiga, assembla pezzi di mobilio, che sembrano funzionali, ma che non lo sono, che sembrano riconoscibili, ma che sfuggono a ogni identificazione. La lettiga infatti perde il suo senso antico e si trasforma in un oggetto che pare sul punto di sfasciarsi. Pure l’installazione di Enrica Borghi mette in scena una trasformazione lampante, come un sogno ad occhi aperti. Si tratta di bottiglie di plastica che, tagliate e deformate dal calore, diventano altro: qui spostano la loro banalità verso quello che potrebbe essere la sublimità di un cielo stellato. Restando se stesse danno luogo a un mostrarsi nuovo, inatteso. Daniele Girardi, infine, propone un intervento che può ricordare una ferita nel muro, da cui fuoriesce una cascata di taccuini bruciati, consunti. Egli intende alludere sia alla catastrofe che all’energia insita nella catastrofe stessa, indicare un mondo in disfacimento, ma anche un nuovo mondo possibile, pensabile, realizzabile. Nelle cose fuori moda, nei fondi di magazzino, nella miniera del dimenticato, questi artisti rincorrono con accanimento quel “lascito del passato” tuttora pregno di indizi che possono offrire anticipazioni di una storia posta sotto il segno del “diverso”, tracce dei fili che già in passato hanno rimandato all’esigenza di un futuro liberato. E’ per questo che in mostra trovano spazio anche la proiezione dell’ultima sequenza di Zabrinskie Point di Antonioni, con le immagini mitiche della villa che esplode o il video del duo svizzero Fischli & Weiss (Der Lauf der Dinge), altra storia di infinita catastrofe, seppure incredibilmente esilarante. E’ per poter mostrare che i ricordi (delle cose) fluiscono nel tempo, ma non si logorano né si esauriscono. Semplicemente con i loro resti fondano altre realtà e altre visioni. (Luigi Meneghelli) Scarica il catalogo Il destino delle cose

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À BOUT DE SOUFFLE

Mostra n. 121 ARTISTI: GIANLUCA CAPOZZI – ELISABETTA VIGNATO A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI PERIODO: 7 GIUGNO – 20 SETTEMBRE 2014 INAUGURAZIONE: 7 GIUGNO 2014, ORE 18.30 Orario: dal martedì al sabato 15.30-19.30 e su appuntamento   Paso doble. Un passo a due. Un duetto. Un’artista che balla in punta di pennello e l’altro “in punta” d’obiettivo. Elisabetta Vignato (Padova, 1964) e Gianluca Capozzi (Avellino, 1973). Entrambi attratti dal paesaggio e dalla sua vertiginosa potenzialità immaginativa. Ma con uno sguardo che va oltre la pura e semplice rappresentazione di una natura bella, sublime o pittoresca. Per assumere invece il mondo come strumento per fare nuove esperienze estetiche e concettuali. Il titolo dato alla mostra è ripreso da un famoso film di Jean-Luc Godard del ‘60, À bout de souffle. In apparenza esso ha la struttura di un poliziesco, ma al regista non interessa il tradizionale racconto cinematografico, quanto invece il sovrapporsi di mille trovate, citazioni, allusioni che propongono una nuova e spiazzante storia. Ebbene, anche nella pittura della Vignato o nelle foto di Capozzi non siamo mai di fronte ad una scena che procede passo passo, fino al cuore del problema (della visione), ma a una scena che si confonde con altre scene (vestigia, colori, immagini). In qualche modo, i due artisti rendono visibile una realtà che non può essere né descritta né percepita oggettivamente, in quanto insituabile, sfuggente, fantasmatica. Se si osserva qualche tela della Vignato si ha l’impressione che la pittura superi ogni idea di limite, per darsi come materia in espansione. Mai definita in se stessa, ma perennemente in movimento, quasi volesse offrire uno spostamento della visione nel suo stesso farsi. E quando nei piccoli quadri recenti viene impiegato anche il “collage”, l’immagine sembra letteralmente frantumarsi, mostrare una struttura elastica, aperta, multiforme. E’ come se l’artista tentasse di concentrare in un unico punto molti punti di vista o far sorgere in un’unica immagine una pluralità di immagini. Gianluca Capozzi si affida invece alla presunta fedeltà dello scatto fotografico. Ma la riproduzione pura e semplice gli pare troppo fredda e troppo pura. E allora la inquina con leggeri interventi segnici o con qualche macchia di materia lisa e rotta. E’ un modo per tradurre un’idea di natura sempre più compromessa e guastata, ma anche per trasformare la fissità della foto in qualcosa di mobile e di sensibile. L’ultimo intervento è quello di stampare su plexiglas sia la foto di partenza che i successivi ritocchi, come a mantenere l’immagine in una dimensione sospesa, tra un’atmosfera familiare e un disturbo senza nome. Infine il video Fireworks, sempre di Capozzi (nello spazio underground della galleria): esso appare come un interminabile spettacolo di luci che nascono da altre luci, di rumori che riempiono il silenzio. E’ il mistero della creazione che si perpetua, tra il grandioso e l’effimero, l’eterno e il mutevole. Un inesausto nascere e morire, senza un vero perchè, come accade nel film di Godard. Scarica catalogo 

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QUINDICI PEZZI FACILI

MOSTRA n. 120 ARTISTI: Enrico Baj   Andrea Bianconi  Clara Brasca   Alessia Cargnelli   Claudio Costa   Jean Dupuy   Ken Friedman   Daniele Girardi   Daniele Giunta   Maurice Henry   Adolf Hoffmeister  Aldo Mondino   Otto Muehl   Santiago Picatoste  Silvano Tessarollo PERIODO: 26 FEBBRAIO 2014 – 26 APRILE 2014 “L’arte è un mélange di vaudeville, di gag, di gioco infantile, di Spike, Jones e Duchamp”. Così scriveva nei primi anni ‘60 il guru di Fluxus George Maciunas. Certo, una mostra non può essere un movimento, una sequenza di “opere allo sbaraglio” non ha nulla a che vedere con le manifestazioni effimere di quell’ultima, utopica avanguardia che è stata Fluxus. Eppure alcuni sintomi che attraversano l’intera esposizione sembrano venire proprio da quel crogiolo inafferrabile di azioni, riti, lavori iniziati e mai finiti. Già il titolo “Quindici pezzi facili”, che richiama sfacciatamente il quasi omonimo film di Bob Rafelson del 1970 (storia di un uomo braccato dalla vita che cerca e non trova, che fugge e si perde senza soluzione di continuità), sta a indicare l’obiettivo di una sorta di deriva visiva che scavalca il limite di ogni spazio e di ogni figura (quadro, galleria, artista), per farsi manifestazione effimera, che sparge idee più che soluzioni, processi più che compimenti. Ma pure quel disegno a china dell’illustratore ceco Adolf Hoffmeister che funziona da “immagine/icona” della rassegna e che mostra la sagoma di un Kafka spaesato in mezzo ad una congerie di valigie, borse, bauli, sottolinea che, se un “concept” c’è, non vuole essere qualcosa di preciso, determinato, durevole. Non c’è una cronologia, anche se ci sono autori storici (Enrico Baj, Claudio Costa, Jean Dupuy, Ken Friedman, Maurice Henry, Aldo Mondino, Otto Muehl); non c’è un filo conduttore, anche se tutte le opere si pongono sotto il segno della precarietà, del frammento, della grazia dell’imperfezione; non c’è neppure la caccia ad assonanze invisibili, a corrispondenze celate tra repertori del passato e nuove ricerche (quella di Andrea Bianconi, Clara Brasca, Alessia Cargnelli, Daniele Girardi, Daniele Giunta, Santiago Picatoste, Silvano Tessarollo). Forse si può individuare una silenziosa dedica al disegno, una testimonianza di affezione al foglio. In mostra infatti sono in bella vista appunti rapidi, abbozzi possibili, tracce occasionali, annotazioni private. Studi preparatori per un’opera a venire o rielaborazioni e riflessioni su opere già eseguite. Solo che qui si incontrano anche collage, foto, video. E allora ogni discorso sull’umiltà del disegno o sulla sua mancanza di qualità, vanno a farsi benedire. Magari è opportuno riprendere in mano il remissivo aggettivo del titolo, e cioè “facili” (inteso nel senso di fragili, inconstituiti, inevoluti). Esso allude ad un mondo che non ha più (o non ancora) un suo luogo, una sua definizione, che non può essere circoscritto in un ambito determinato, che non è più “il luogo della storia” (almeno di quella con la “S” maiuscola), ma il luogo di tante piccole storie che si rarefanno o si dissolvono incessantemente, come è sempre accaduto anche in Fluxus (che in diversi tempi la Galleria ha indagato da più angoli critici). Così, alla fine, questa mostra, che pare non avere una sua specifica identità, ha il volto stesso della galleria: quello dei suoi sogni e delle sue scommesse. (dal testo di Luigi Meneghelli)

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BETWEEN HEAVEN AND EARTH

MOSTRA n. 119 ARTISTA: FLURINA BADEL, GIANCARLO LAMONACA, LISSY PERNTHALER PERIODO: 26 OTTOBRE 2013 – 28 GENNAIO 2014 ORARIO: dal martedì al sabato 15.30-19.30 e su appuntamento “Metti insieme due cose che insieme non sono mai state. E il mondo cambia”. Così scrive Julian Barnes nel suo ultimo libro “Livelli di vita”. Ebbene, l’esposizione “Between Heaven and Earth” (tra cielo e terra) intende combinare proprio due dimensioni dell’essere e del vedere che non si sono mai incontrate. Da una parte storie di levità, di aria, di nuvole, e dall’altra storie di terra, di fatiche, di sangue. Una volta accostati, questi due stadi, danno vita ad un campo inesplorato di analogie, simmetrie, contrapposizioni. Lo sguardo è spinto in contemporanea a intraprendere un viaggio verticale (ascetico) e uno orizzontale (terrestre), a raggiungere le altezze per cimentarsi, come Icaro, con lo “spazio degli dei” e a fare i conti con le cadute più violente, i precipizi, gli sfaceli della carne. E non si tratta solo di rappresentazioni, di incontri con la realtà “sotto forma di apparenza e fantasma”, ma di esperienze vissute in diretta, provate sulla propria pelle. Già i corpi nudi di donna che la giovane artista svizzera Flurina Badel (Engadina, 1983; vive a Basilea) fotografa come fossero resti abbandonati in mezzo alla natura, trasmettono un malessere esistenziale che si evidenzia nella perdita dei loro tratti specifici e nel loro trasfigurarsi in cose. Ma il discorso si fa ancora più impellente nella performance che l’artista eseguirà durante il vernissage (Under My Skin II). Come una Penelope dei nostri giorni lei si cucirà addosso un vestito, quasi a voler suscitare una sensibilità dilatata ed esternare il piacere o la sofferenza di narrarsi all’altro. E lo stesso avviene anche con i “fazzoletti” su cui ricama, con un misto di ironia e intimità, frasi del tipo “I love you more and more every day”. A contare non è solo il messaggio, ma soprattutto il rito, non è solo la scrittura, ma soprattutto il gesto febbrile e maniacale della tessitura. In un epigramma Hugo von Hofmannsthal scrive “Terribile è quest’arte! Io filo il filo, estraendolo dal mio corpo e questo filo è insieme la mia via lungo l’aria”. Ebbene, alla tessitura, all’intreccio sembrano paradossalmente rifarsi anche le foto di Giancarlo Lamonaca (Cortina d’Ampezzo 1973; vive a Varna in Alto Adige). Sono immagini di Nubi, ma non hanno nulla di realistico: infatti, alla pari di Ghirri egli non intende “scattare foto, ma costruire immagini”. E, per farlo, non riprende cieli sereni, versioni celesti dell’Arcadia, ma prova a portare il cielo in terra, a profanarne la purezza con una serie infinita di sovrimpressioni, di intrecci intricati e misteriosi. L’immagine assume allora l’idea di una rete pericolosa simile a quella del ragno, ordita nell’ombra come una congiura. Così, con operazioni di taglio, bruciatura, inabissamento, Lamonaca dà testimonianza non di come si vede, ma di come si potrebbe vedere. Non mostra vere nubi, ma il modo in cui noi le pensiamo e le immaginiamo. E anche le performance di Lissy Pernthaler (Bolzano, 1983; vive tra Berlino e l’Alto Adige), documentate in still o videoinstallazioni, fanno vedere, toccare, scrivere il corpo. Il suo è un linguaggio che non è mai purificato, ma primitivo, violento, fisico. L’obiettivo è quello di creare un corpo nuovo, aperto verso il mondo e verso gli altri, un corpo che comunica e con il quale si comunica. Dunque un gesto d’amore e di donazione. E anche se adopera simbologie ancestrali, come quelle di inghiottire avidamente cibo, di offrire il proprio cuore all’umanità, di avviarsi lentamente verso la morte, a interessarla è sempre il collegamento tra interno ed esterno, la relazione tra la propria intimità e la vita sociale. In fondo, ancora una cucitura, un filo che tesse contatti, legami, unioni. E la terra e il cielo? Non sono altro che il risultato dell’intreccio tra gli infiniti spazi della vita: dalla discesa agli inferi più riposti all’elevazione verso le immensità più lontane, dall’illusione di calarsi nei meandri della psiche al sogno di essere sbalzati in una spazialità sterminata. Ma in un tempo caratterizzato dalla fine delle grandi narrazioni e dalla frantumazione di ogni progetto, forse non restano che rammendi, sofferti e vertiginosi tentativi di ricucire il senso dell’abitare, del presentarsi e del rivolgersi agli altri: senza dimenticare il coraggioso e utopico motto di T. S. Eliot: “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”. (estratto dal testo di Luigi Meneghelli)

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LOVE ME TENDER

MOSTRA n. 118 ARTISTA: ANDREA BIANCONI PERIODO: 11 MAGGIO – 28 SETTEMBRE 2013 ORARIO: dal martedì al sabato 15.30-19.30 e su appuntamento “Sono uno specchio, un’eco. L’epitaffio”. Parole di Borges, per dire dell’infinito, dell’innumerabile, del tempo, dell’eternità o della ciclicità dei tempi. Ma anche, per sottolineare la convivenza e la compresenza di tutte le cose tra di loro, la loro connessione fluida, ininterrotta che si perpetua attraverso la presenza (o la sparizione) dell’autore stesso. Ebbene, tutta la ricerca degli ultimi anni di Andrea Bianconi (Arzignano, VI, 1974; vive e lavora tra Vicenza e New York) sembra concentrarsi su un’idea di perpetuazione del vissuto, del perdurare di esistenze, anche quando queste sono ridotte a semplici resti, a spoglie ingegnose o maliziose. Anzi, l’artista vicentino pare spingere la sua operazione alle estreme conseguenze, legando (e collegando) uno sterminio di oggetti in una sorta di alluvione romantica e surreale, fino a far perdere loro ogni profilo consueto, ogni riconoscibilità, ogni corporeità. A contare è soprattutto l’utopica idea di collezionare il mondo, come fosse una casa di adorabili fantasmi, una raccolta di saperi indiziari, esposti alla fragilità, al movimento, al mutamento che è la caratteristica stessa del sapere. Niente può essere davvero ordinato o classificato: e gli strumenti che Bianconi utilizza per assemblare il suo bizzarro archivio (corde, nodi, gabbie, colle), più che unire e rinchiudere, risvegliano i “demoni dell’analogia”, attivano un infinito gioco di rimandi, collegamenti, possibilità visive. Le stesse installazioni fatte di gabbie in legno e metallo verniciate di nero non sono altro che “sculture” che disegnano lo spazio. E’ tutto un entrare e un uscire di segni, un imbrogliarsi di linee, come nelle “carceri” che si moltiplicano all’infinito di Piranesi: labirinti architettonici di scale, piani, volte che si arrampicano verso il vuoto. E’ lo stesso artista che parla di “continue sovrapposizioni, di costruzioni e decostruzioni”: “la gabbia la uso, dice, perchè la mia testa sta esplodendo di pensieri e io non riesco a contenerli tutti”. Eppure, questi pensieri, Bianconi sembra riuscire a contenerli nell’ultimo ciclo di lavori dal titolo “Love Story”, dove ricopre sedie, biciclette, soprattutto vasi di fiori, con colate di cemento, vinavil e smalti vari. E, stendere il colore su una cosa, si sa, assume il significato di intimizzarla, di invaderne la pienezza, di condividerne l’essenza. In realtà ciò che appare vicino è anche posto sotto il segno della lontananza: noi lo riconosciamo, ma esso non si lascia mai cogliere pienamente, perchè si colloca al di là rispetto al mondo dei fenomeni: “fa parte della metafisica: ospita il vuoto, custodisce il silenzio, accoglie il nulla”, scrive Luigi Meneghelli in catalogo. Ancora una volta cioè lo sguardo di Bianconi non sosta sull’opacità delle cose e degli oggetti, ma ne moltiplica le possibilità di sorpresa, ne illumina la realtà attraverso scorci imprevisti e accostamenti singolari. Ne fa proprio “echi”, risonanze borgesiane. Catalogo_Love_Me_Tender_2013

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LE CINQUE VARIAZIONI

Mostra n. 117 ARTISTI: VASCO BENDINI  | DANIELE GIRARDI  | DANIELE GIUNTA | ERNESTO JANNINI | ADRIANO NARDI PERIODO: 26 FEBBRAIO – 27 APRILE 2013 La galleria La Giarina presenta nei suoi spazi da martedì 26 febbraio la nuova mostra Le cinque variazionI, che mette a confronto i lavori di cinque artisti: VASCO BENDINI, DANIELE GIRARDI, DANIELE GIUNTA, ERNESTO JANNINI, ADRIANO NARDI. Diversa la generazione, diversa la tecnica e la poetica degli artisti, unico il media: la pittura. Se nel film di Lars Von Trier del 2003 “Le cinque variazioni” si apriva una profonda analisi sul significato stesso di “cinema”, in questo caso il tema dell’indagine è la pittura nelle sue diverse declinazioni, viste nell’interpretazione di artisti presentati finora in galleria in mostre personali e, per la prima volta, invitati al dialogo. VASCO BENDINI (Bologna, 1922) vive e lavora a Roma. Riconosciuto dalla critica come uno dei padri più rappresentativi dell’informale italiano, ha studiato con Giorgio Morandi e Virgilio Guidi. Negli anni 60 evolve verso pratiche oggettuali e comportamentali mettendo in crisi lo statuto convenzionale dell’opera. Negli anni successivi riprenderà una pittura di totale lirica autonomia formale e cromatica, con risultati di grande tensione poetica. “il lavoro di Bendini sembra rifiutarsi a troppo analitiche precisazioni. Esso si propone “altro”, problematico, reticente e a suo modo misterioso”. (G.Cortenova). Il MACRO di Roma il 27 febbraio presenterà le installazioni dell’artista del 1966/67 tra cui “Cabina solare”. DANIELE GIRARDI (Verona, 1977) vive e lavora a Milano. La sua ricerca ha sempre affrontato l’esplorazione e la fusione di differenti linguaggi per arrivare a concepire un nuovo territorio pittorico. Negli ultimi anni i suoi interessi si sono concentrati essenzialmente sull’immagine come traccia digitale: da qui sono nati vari nuclei di lavori, tra cui le video-pitture, opere in cui disegno, pittura, immagini e collage digitali creano un ciclo e un’azione nel tempo. In “Re-evolution” (2009) pone al centro dell’azione l’individuo in uno sfondo sempre più avvolgente e denso di materia pittorica. DANIELE GIUNTA (Arona, 1981) vive a lavora a Milano. Pitture, piccoli disegni, sculture lignee, composizioni sonore e azioni live sono per l’artista sezioni che dialogano in maniera osmotica come elementi corali di un unico viaggio all’interno dell’infinito, esplorando negli estremi della percezione, nei minimi attimi in cui dal nulla si genera il tutto. Luce, stelle, ghiacci, cenere, cosmologie minime in continua inarrestabile metamorfosi a formare una mistica geografia interiore. ERNESTO JANNINI (Napoli, 1950) vive e lavora a Milano. “E’ sicuramente una dei più significativi esponenti della generazione emersa in Italia dopo la Transavanguardia nella seconda metà degli anni 80 e vanta un curriculum importante, dove spiccano le partecipazioni alla Biennale di Venezia del 1976 e 1990. Il lavoro di Jannini può essere definito “archeologia del presente”, l’artista centra il suo progetto su una estetica della tecnologia” (E. Di Mauro). I lavori dopo il 2000 sono quasi tutti improntati alla dialettica natura/cultura. Sul versante della pittura, concepita come pratica del silenzio, l’autore è pronto a cogliere l’innocenza smarrita di cani, di fiori, di frutti: immagini attraversate costantemente da una striscia orizzontale di microcircuiti. ADRIANO NARDI (Rio de Janeiro, 1964) vive e lavora a Roma. “La dimensione analitica che segna da sempre il lavoro di Nardi, viene nelle ultime opere condotta su un binario sospeso dove il corpo femminile può paradossalmente trasformarsi nelle forme di un paesaggio mentale, sfidando le nostre certezze e raggiungendo un territorio di indagine concettuale dove la bellezza viene scomposta e riordinata attraverso un metodo rigoroso di studio della visione e delle sue coordinate. La pittura assume dunque consistenze differenti, si trasforma in un’epidermide rugosa o in un medium dalla presenza lievemente materica, si smaterializza nei fluidi rivoli dei pixel e ritorna ambiguamente per sviare le sicurezze del nostro sguardo…” (L. Canova).

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B.O.M.A.R. UNIVERSE

Mostra n. 116 ARTISTA: MARCO BOLOGNESI A CURA DI: VALERIO DEHO’ PERIODO: 6 OTTOBRE – 19 GENNAIO 2012 Bolognesi costruisce un suo mondo a parte, si chiama B.O.M.A.R. UNIVERSE come sintesi del suo nome, e non è un caso o un eccesso di narcisismo. Lui crede veramente che lo “spazio interno” quella parte di universo che costituisce il nostro paesaggio interiore, abbia o trovi occasioni per traboccare e costruire un mondo esterno, globale, in cui il dentro e il fuori sono la stessa cosa. Marco Bolognesi sembra aderire ad un’ estetica cyber punk, è amico di Bruce Sterling, ma ha anche lavorato con Vivienne Westwood a Londra. Sa che la pelle è importante. E’ tutto una questione di gestire le apparenze, molteplici, che vogliamo indossare. Finiamo per essere quello che vediamo e di adeguarci a come siamo visti. Tutto normale. E’ un artista visivo, completamente visivo, le storie che racconta sono approcci per similitudine, assonanze, consonanze, riverberi e distorsioni. Appartiene mentalmente allo stream nato dalla mostra “Post Human” del 1991 di Jeffrey Deitch. Il suo lavoro fotografico, installativo o cinematografico parte e ritorna sempre al tema della pelle e del corpo. Probabilmente ci sono anche vicende personali che hanno determinato questa sua visione del mondo, ma la sua è soprattutto una scelta culturale. Saldare il passato al futuro, la carne ai transistor: in mezzo c’è sempre e soltanto il corpo. Questo può essere quello delle modelle nudo o modificato dalla tecnologia, c’è del sesso nascosto in ogni angolo del suo lavoro, c’è il bondage che attrae ma anche l’odore del cuio è visibile e percepibile. Un suo film del 2008 si chiama “Black Hole” e se il buco nero fosse De Sade, se il destino dell’uomo è alla fine quello di soffrire e godere nello stesso tempo? Ma lui costruisce. In “Humanescape” del 2012 la serie di fotografie sono esattamente questo: un corpo nudo in un paesaggio infantile fatto di piccoli pupazzi e di strutture da meccano. Un gioco. Qualcosa che si può fare con le mani. E la stessa arte fotografica di Marco Bolognesi non ha simpatia per le miscele digitali. Preferisce lavorare con i set, con il trucco, con quella dimensione di una tecnologia che non è una scorciatoia ma sa ancora di sudore e fatica. Ancora il corpo, quindi, ma anche la messa in posa, il lungo operare per costruire un’immagine finale che solo il cinema rende apparentemente facile. Bolognesi in questo ha ancora dentro quello stile di professionalità artigianale alla John Carpenter, il mitico regista di “Distretto 13” e di “Dark Star” oltre naturalmente di “1997: fuga da New York”. Proprio da “Dark star” l’artista ha preso il titolo per una mostra del 2009 a Parma, curata da Elena Forin, in cui veniva presentato il progetto Genesis: 12 light box e una colonna/ totem dentro la quale fluttuano volti tridimensionali di una nuova razza umana ibridata con le macchine. Ma il futuro per Bolognesi è intriso di primitivismo, di cultura pop, di derive fumettistiche oltre che di mille link alla cultura punk. In effetti, il suo interesse è centrato sul concetto di mutazione, sulla logica e la casualità delle trasformazioni che mettono in dubbio la biologia del cambiamento fisico e l’apertura a universi paralleli. Il corpo, quindi, ma anche le sue interazioni con gli universi del fetish, del cyborg, dell’immaginario cinematografico di Cronenberg e Burton o letterario che va da Phil K. Dick all’indimenticabile James G. Ballard di “Crash”. L’universo creato da Marco Bolognesi possiede tante sfumature, la stessa attenzione per la donna e il suo volto, deriva dalla sua attenzione per il cambiamento, il trucco, il cambiare personalità con un colore dei capelli o una linea attorno agli occhi. Il fascino verso il glamour deriva da questa sensibilità. Il resto sta proprio nell’evoluzione di una cultura narrativa di anticipazione in cui l’immagine dell’uomo e della macchina si fondono in un ibrido fluttuante, modificabile dalle circostanze e dalla tecnologia. Come in “Negromante” d William Gibson, il confine tra computer e l’uomo non sta più nelle terminazioni nervose ma nella memoria di un’altra epoca e di un altro corpo. La cultura artistica e letteraria di Bolognesi, da anni residente a Londra, deriva dai personaggi e intellettuali che negli anni Ottanta e Novanta hanno annunciato un mondo nuovo, probabilmente non migliore di questo, ma forse meno monotono.

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FLUXUS JUBILEUM

Mostra n. 115 ARTISTI: JOSEPH BEUYS – GEORGE BRECHT – GIUSEPPE CHIARI – PHILIPH CORNER – ERIK DIETMAN – JEAN DUPUY – KEN FRIEDMAN – AL HANSEN – GEOFF HENDRICKS – DICK HIGGINS – JOE JONES – MILAN KNIZAK – ALISON KNOWLES – CHARLOTTE MOORMAN – BEN PATTERSON – SERGE III – DANIEL SPOERRI – BEN VAUTIER – BOB WATTS A CURA DI: VALERIO DEHO’ PERIODO: 12 MAGGIO – 15 SETTEMBRE 2012 La Giarina Arte Contemporanea nell’anno del cinquantenario della nascita del movimento Fluxus inaugura la mostra FLUXUS JUBILEUM. Saranno esposte nelle sale della galleria le opere dei maggiori protagonisti storici del movimento. In occasione dell’apertura della mostra sabato 12 maggio, avrà luogo un incontro con il curatore Valerio Dehò e gli artisti Philip Corner e Ben Patterson che presenteranno una performance live presso la Società Letteraria di Verona (Piazzetta Scalette Rubiani, 1), evento in collaborazione con l’Associazione Contemporanea Verona. Il gruppo Fluxus si è mosso dando nuovo significato alla parola “arte totale” abbandonando ogni concezione specialistica e ogni steccato tra le ideologie e le competenze. Fluxus è movimento, sperimentazione, smarginamento della pratica estetica in quella politica, degli ambiti poetici e disciplinari. Fluxus è il primo movimento che crea un’unica comunità transnazionale di artisti legati da una comune intenzione etica di eliminare ogni distinzione tra la vita quotidiana e il pensiero e la pratica dell’arte. L’influenza del Fluxus sulle nuove generazioni è enorme perché oggi i temi trattati dal gruppo negli anni sessanta sono ormai routine nel contemporaneo. La mostra, festeggiando appunto il 50°anniversario del movimento, unendosi al progetto dello stesso curatore a Palazzo Giacomelli a Treviso FLUXUS JUBILEUM, L’ultima avanguardia del Novecento nelle collezioni venete, vuole integrare il momento storico con l’attualità dell’arte giovane che risulta essere fortemente influenzata da esso, attraverso una serie di performance che avranno luogo durante il periodo di durata della mostra. L’importanza del movimento nel Veneto è attestata, e sarà ben rappresentata in mostra, dall’attività di collezionisti come Francesco Conz di Verona, che negli anni settanta hanno organizzato ad Asolo eventi e mostre dedicate ai protagonisti del movimento. Questa attività ha fatto nascere un interesse culturale e collezionistico verso questa avanguardia che sicuramente proprio nel Veneto ha avuto uno dei luoghi fondamentali della sua diffusione e produzione In Europa. Tutti gli artisti Fluxus sono stati nel veneto e hanno partecipato a performance straordinarie. La parola Fluxus fu pronunciata la prima volta da George Maciunas nella sua galleria newyorkese, A.G. Gallery, nella primavera del 1961. In quella occasione si presentavano una serie di performance, chiedendo al pubblico il contributo di 3 dollari per sostenere la rivista “Fluxus”. Nello stesso anni viene preparato con il contributo di La Monte Young e Jackson Mac Low il libro An Antology, edito soltanto due anni dopo. L’avanguardia chiamata Fluxus nacque ufficialmente con il Fluxus Internationale Festspiele Neuester Musik di Wiesbaden (Germania) del 1962. Vi parteciparono, oltre a George Maciunas, artisti che oggi sono ritenuti tra i più importanti del secolo come Nam June Paik, Wolf Vostell, George Brecht, Giuseppe Chiari, Al Hansen, Gianni Emilio Simonetti, Emmett Williams, Ay-O, Robert Filliou,Daniel Spoerri e Dick Higgins (teorico dell’Intermedia e fondatore della casa editrice Something Else). Questo gruppo di artisti è diventato un riferimento mondiale per tutta la sperimentazione multimediale. L’idea di mettere insieme la musica, la performance, la pittura e la fotografia, nacque da quell’esperienza fondamentale per tutta l’arte contemporanea e anche per alcuni artisti attuali come John Armleder. Successivamente alla fondazione si aggregarono personaggi che provenivano dal mondo dello spettacolo e della musica come Yoko Ono, John Lennon. Ma sicuramente il primo grande momento di aggregazione di questa generazione, fu la scuola di John Cage a New York nel 1958. Artisti Fluxus, come Dick Higgins e Philip Corner, si sono formati su quellelezioni. Durante il Mese di maggio si organizzeranno eventi, convegni, proiezioni di video sia a Treviso che a Verona, dedicate al movimento.

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STRANGE DAYS

Mostra n. 114 ARTISTI: LUISA RAFFAELLI A CURA DI: VALERIO DEHO’ PERIODO: 25 FEBBRAIO – 30 APRILE 2012 Strange Days è il titolo, ereditato da un album storico dei Doors del 1967, della nuova personale di Luisa Raffaelli alla galleria La Giarina. Una mostra che ruota attorno a sensazioni, spostamenti impercettibili, variazioni su di un tema, quasi una sintesi della poetica dell’artista, un compendio che non chiude però ogni discorso ma lo sospende. Infatti, le immagini di Luisa Raffaelli hanno in sé una forza centrifuga che scompagina l’ordine naturale. Non vi sono tentazioni seriali, ma la realtà appare forzata a mostrare quello che è permanente, dietro le apparenze. L’artista sposta leggermente di segno ogni accadimento naturale, orchestrando gli elementi in modo continuo con una forma narrativa che è fatta di sequenze. La tecnica non è quella dello stravolgimento, dell’immagine di forte effetto emotivo, anche se riesce a mettere insieme un elemento sempre riconoscibile (la donna in fuga) ambientata in situazioni urbane o in claustrofobici interni. Questo lavoro ormai ha una temporalità sufficientemente ampia perché si possa parlare di una forma di “quotidiana epicità”. La Raffaelli ha inventato un personaggio, una donna dai capelli rossi che infiamma e attraversa scenari urbani o moli abbandonati, derive di una civiltà che produce scarti e illusioni, dove non sembra mai esserci posto per tutti. Le avventure della donna (che evidentemente non ha una biografia definita ma rappresenta tutte le donne), che anima le sue foto dagli anni Novanta, sono lo scandaglio di una interiorità che è certamente il riflesso delle attese ed esitazioni dell’artista, ma assume una forma simbolica che però non diventa mai apodittica. La Raffaelli racconta per immagini, il suo è un libro diviso per capitoli. La fuga, il nascondersi, il ritrovare se stessa negli oggetti, negli effetti personali magari solo celati (e raccolti) nella borsa, sono metafora di una condizione di clausura, di un’invisibile prigione da cui tentare di uscire. Poi l’artista gioca benissimo sul rapporto tra una sorta di ambiente definito dal colore in modo metallico e ostile e la figura dai capelli rossi che si muove, che cerca, che non trova e non si fa trovare. Prevale non solo il contrasto tra la scena e la protagonista, ma anche l’idea che tutto sia comunque in movimento, un falso movimento. Ma è questo probabilmente il fine del tutto, muoversi cercando un improbabile centro di gravità permanente. Movimento e assenza di peso, su queste coordinate fisiche e sui loro risvolti psicologici, si muove il lavoro di Luisa Raffaelli che recentemente ha aggiunto anche una serie di lavori dedicati alla natura, agli alberi, all’ambiente. Gli alberi levitano nello spazio, fuggono dalla terra in un moto anche questo centrifugo quanto decisamente ascensionale. Una fuga, un allontanamento, quasi la ricerca di un altro spazio più proficuo, migliore, più adatto alla vita. La donna e gli alberi diventano una sorta di principio vitale che si sparge nel mondo, che fugge alla ricerca di una situazione ideale. Brochure_Strange_Days_2012

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CASA LA VITA

MOSTRA n. 113 ARTISTI: ENRICO BAJ – ERNESTO JANNINI – BEN PATTERSON – SILVANO TESSAROLLO A CURA DI: VALERIO DEHO’ PERIODO: 22 OTTOBRE – 31 DICEMBRE 2011 Video intervista in galleria al curatore Valerio Dehò L’arte si avvicina spesso alla letteratura, sono parti dello stesso sogno. Questa mostra è un omaggio ad Andrea de Chirico, cioè ad Alberto Savinio, musicista, artista e scrittore oltre che “fratello” del celebre Giorgio. La sua raccolta di racconti dal titolo “Casa ‘La Vita’ “ pubblicata nel 1943 affronta il tema dei ricordi, della casa come archetipo e si miscela con la scoperta della morte, inizio e fine di tutto. I racconti sono poi arricchiti da disegni, e brevi testi in omaggio ad una tradizione surreale e visionaria a cui Savinio contribuì in modo determinante. CI sono degli “occhi” in cui lo scrittore compone versi di accompagnamento ai racconti, delle chiose molto libere, delle direzioni dello sguardo da suggerire al lettore, intervallando racconti. Del resto anche fisiologicamente l’occhio per Savinio, è l’organo principale della conoscenza e del rapporto con il reale. Permette la percezione ma anche lo stravolgimento, quell’ effetto di straniamento che ci fa rendere irriconoscibili anche gli oggetti più usuali spesso attraverso l’avvicinamento e l’allontanamento dei particolari. In effetti, in questa mostra gli artisti rivisitano un tema comune, La casa, non solo in modo creativo ma anche come resa problematica di ciò che è familiare. La casa è protezione, separazione dal fuori, isolamento, simbolo della famiglia e della felicità domestica. La mostra articola in quattro momenti i luoghi dell’abitare e del vivere. Ben Patterson, celebre artista Fluxus, ha realizzato un copriletto che è un inno alla coppia. Realizzato in stoffa blu e dipinto in modo abbastanza naif, la coppia in piedi con tanto di attestato di matrimonio solidamente impegnato dal marito, si erge in un ambiente floreale. Sembra una rivisitazione di Rousseau il Doganiere, un’opera insolita e felice nel lavoro di Patterson. Naturalmente c’è anche il letto, il talamo gestatore della famiglia, che reca le scritte Wife e Husband, che sottolineano l’unione ma anche i ruoli, i limiti e le funzioni domestiche. Silvano Tessarollo dà una carica di temporalità rappresa nelle sue installazioni dedicate alle salle de bain. I colori cupi, la materia scabrosa del fiberglass, le incrostazioni di colore che marcano l’abbandono, caricano questi luoghi di forte esistenzialità. C’è sofferenza, attesa, ma anche probabilmente la ricerca di una sobrietà che annulla l’inutile e ponga di fronte alla nudità delle cose. Le opere di Tessarollo ampliano il disagio, non sono rassicuranti, le sue stanze da bagno sono reperti quasi bodies of evidence. Raccontano delle storie attraverso la materia e i coaguli, rinviano ad un immaginario che nel cinema porta il nome di David Lynch. Mettono insieme il banale con l’inquietudine, sono presenze che si giustificano da sole. Ernesto Jannini ha spesso contaminato la natura con i chips elettronici, con l’hardware delle miriadi di macchine che ci aiutano e accompagnano nella vita e nel lavoro. La sua cucina però risulta antitecnologica, proprio perché la natura non è naturale ma è natura rappresentata. Senza freddezza e con la consueta ironia, Jannini compone un ambiente che è unheimlich per eccellenza anche se possiede in sé il germe per una lettura realistica del presente. Ma proprio il rigore e l’attenzione tecnica di Jannini danno anche l’illusione della perfezione, che tutto sia sotto controllo, che tutto abbia un ordine. Proprio nel tempio della casa dedicato al Dio Cibo, l’artista ci convince che la distanza dal naturale è ormai annullata da una tecnica a cui l’uomo ha affidato il proprio futuro. Che il mondo è questo e si avvicina sempre di più alla sua metafora tecnologica. Un artista distante dai precedenti per storia ma molto incline al paradosso e alla patafisica come Baj, è presente con un lavoro del 1987 che rappresenta un gioco degli scacchi con le relative quanto immaginifiche pedine. Il suo lavoro è perfetto per un salotto, per una living room. L’artista morto nel 2003, da un lato vi è una chiara citazione di Duchamp, grande esperto di scacchi, dall’altra esalta la dimensione del gioco come allegoria universale. L’opera diventa esattamente il Gioco del Mondo, titolo tra l’altro di un libro di Julio Cortazar, uno spazio limitato in cui si configurano i poteri e i simboli che reggono le sorti della terra. Del resto la formazione dada surrealista dell’artista è sempre stata improntata ad una vena di critica sociale, di raffigurazione del teatro del mondo attraverso i ruoli e i poteri forti che si giocano le redini della terra. Questo lavoro in legno di Baj è un microcosmo, riflette specularmene l’idea della casa come struttura chiusa, come luogo concentrato di persone e funzioni sociali. La mostra mettendo insieme artisti di differenti generazioni, vuole anche trasformare lo spazio della galleria in un ambiente domestico, rompere la distanza della galleria d’arte verso il pubblico per vedere e ragionare attorno ad uno dei temi fondamentali dell’esistenza.

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ENCRYPTING SIGNS ON THE FABRIC OF A RHIZOME

Mostra n. 112 TITOLO: ENCRYPTING SIGNS ON THE FABRIC OF A RHIZOME – criptando segni sul tessuto di un rizoma – ARTISTI: DENIZ ÜSTER | TOM HARRUP A CURA DI: ELENA FORIN OPENING: SABATO 14 MAGGIO 2011 ORE 18.30  PERIODO: 14 MAGGIO – 17 SETTEMBRE 2011 Dopo le mostre di Daniele Giunta e di Daniele Girardi, la Galleria la Giarina prosegue la propria attività espositiva dedicando una mostra a due giovani esponenti del panorama internazionale, Deniz Üster e Tom Harrup. Per questa loro prima mostra italiana, gli artisti presentano parte della ricerca che affrontano insieme, e che si sofferma sulla teoria della trasmissione di informazioni digitali attraverso elementi vegetali. Tecnologia, informazione, trasfigurazione e scienza, secondo Deniz Üster e Tom Harrup si fondono a vari livelli, generando molteplici diramazioni alle forme naturali (i rizomi appunto). Criptare i segni sulla pelle di queste trasformazioni, significa quindi mettere in atto un tentativo di lettura dei contenuti che queste raccolgono. Üster e Harrup, con il loro giardino sperimentale in miniatura, ci accompagnano nell’universo di una scienza empirica, ingegneristica e laboratoriale; nel mondo dell’indagine teorica rappresentato dall’installazione sonora, che spiega la teoria degli artisti rispetto a queste tematiche, e infine nella ricerca codificata e museale, manifesta nell’esposizione di un volume scientifico che però è inaccessibile, perché custodito sotto una teca. A questa visione, in cui gli artisti cercano la crescita e lo sviluppo inevitabile e incontrollabile dell’elemento naturale mettendo a confronto, non senza una certa ironia, la propria indagine a quella della scienza tradizionale, Üster e Harrup aggiungono schizzi, formule, articoli di giornale, e il testo dell’installazione audio, offrendo agli spettatori “un paesaggio in bianco e nero tratto dal libro presentato nell’altra sala. Questi elementi, incorniciati e appesi al muro, daranno l’idea di un pamphlet prodotto a basso costo, o di una documentazione da studiare attentamente”. Tra occultamento e rivelazione, apertura e chiusura, mistero, ambiguità e rappresentazione, lo spettatore vivrà quindi un’esperienza in cui novità, informazione, studio, scoperta e sorpresa si alterneranno alla frustrazione di una latente inafferrabilità. Dopo il mondo naturale pieno di apparizioni dell’installazione di Daniele Giunta, e dopo la natura digitale e per immagini di I Road di Daniele Girardi -entrambe ancora visibili nelle altre sale della galleria- oggi con Deniz Üster e Tom Harrup si aggiunge un’altra interessante visione a una delle tematiche ricorrenti nella programmazione e negli interessi della galleria: il mondo della natura e la sua innata propensione all’ibridazione delle forme. Deniz Üster (Istanbul, 1981) è un’artista di fama internazionale che vive e lavora fra Glasgow e Istanbul. Si è laureata a Istanbul, dove ha anche conseguito un master. Dopo essersi trasferita a Glasgow ha completato i suoi studi alla Glasgow School of Art. Il suo lavoro è stato esposto al Centre of Contemporary Arts, Glasgow; al Kunstlerhaus Bethanien, Berlino; all’Eligiz Contemporary Art Museum, Istanbul; al TPTP Space, Parigi. Di recente ha esposto alla galleria Saatchi di Londra. Tom Harrup (Brighton, 1980) è uno scultore che vive a Glasgow. Ha studiato al Leeds College of Art and Design e si è laureato alla Cardiff School of Art prima di conseguire il master presso la Glasgow School of Art. Ha esposto al Centre for Contemporary Arts, Glasgow; al Kunstlerhaus Bethanien, Berlino, e al Trongate 103, Glasgow. Tom continua a lavorare alle sue sculture ai Glasgow Sculpture Studios, e di recente è stato premiato con una borsa della Royal Scottish Academy per poter usufruire di una residenza allo Scottish Sculpture Workshop.

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I ROAD

Mostra n. 111 ARTISTA: DANIELE GIRARDI A CURA DI: ELENA FORIN PERIODO: 22 GENNAIO – 30 APRILE 2011 I ROAD, la personale che la galleria La Giarina dedica a Daniele Girardi (Verona, 1977), nasce da un sentire e da una volontà che è il filo conduttore della sua indagine e del suo vedere e “cercare” le immagini. La strada è un itinerario, ma è anche l’essere dell’artista nel suo percorrere e nel suo cercare la sintesi di una pittoricità e di uno spazio in cambiamento – quello della natura, dell’ambiente, del contesto, ma anche della galleria- fatto di identità mutevoli che si accendono nelle immagini e attraverso le immagini trovando un territorio in cui ciò che è mentale e ciò che è reale sono uniti nel medesimo sogno. Le opere hanno il loro centro ideale in una grande installazione, una sorta di “sketch book multimediale” le cui immagini –centinaia- confluiscono e scorrono in un flusso continuo all’interno di un tubo catodico. Visione, simbolo e immaginazione in questa strada percorsa dall’artista e dallo spettatore attraverso continui “passaggi di stato” e profonde trasfigurazioni, conducono direttamente alla sintesi degli interessi di Girardi, per cui processo e atto creativo sono tappe necessarie di un lungo viaggio fisico e mentale attraverso l’ibridazione. Il punto di partenza di I ROAD come della ricerca dell’artista, è l’impronta digitale, il cui potenziale si apre nella metamorfosi prodotta dallo scorrere del tempo nelle video pitture, e dalla relazione profondamente intima, struggente e necessaria con lo spazio nelle installazioni. Oggi, dopo gli interventi di lunga durata creati appositamente per le sale della galleria da Manfredi Beninati e da Daniele Giunta, il percorso attraverso la contemporaneità in cui La Giarina è impegnata da anni, continua con questi straordinari lavori di Daniele Girardi, sintesi di una ricerca che si rivolge alla tecnologia, che tocca i territori di una poesia lucidamente allucinata, e che indica le direzioni di quella strada sospesa nel tempo che è I ROAD. Il 26 febbraio, l’Associazione Contemporanea Verona presenterà in collaborazione con La Giarina un evento in cui le opere di Girardi verranno messe a confronto con le poesie di Alessandro Rivali (Genova, 1977). Accomunati dall’idea del viaggio come dimensione dell’indagine e dall’interesse per un linguaggio feroce ed eloquente, Daniele Girardi e Alessandro Rivali accompagneranno il pubblico attraverso nuove possibili narrazioni tra parole e immagini. In questa occasione verrà presentato il catalogo della mostra, con un testo di Elena Forin. Daniele Girardi (Verona 1977). L’indagine artistica affronta l’esplorazione e la fusione di differenti linguaggi per arrivare a concepire un nuovo territorio video pittorico. Per l’innovativa tecnica sperimentata (tecnopittura) che coniuga tradizione pittorica e ricerca digitale partecipa a numerose mostre collettive e personali tra queste la XIV Quadriennale di Roma nel 2004, il progetto Cromo-kit al Teatro della Triennale di Milano nel 2006 e sempre nello stesso anno vince la borsa di studio al programma ISCP di New York City dove è stato a stretto contatto con la comunità artistica internazionale. Le sue opere si trovano in importanti collezioni pubbliche e private. Nel 2009 l’opera di videopittura entra a far parte della collezione permanente del Museo d’Arte Contemporanea di Palazzo Forti. Nel 2010 partecipa alla mostra Italian Art Today all’Istituto Italiano di Cultura di San Francisco. Vive e lavora Milano. Catalogo_I_ROAD_2011

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STERNBILD

Mostra n. 110 ARTISTA: DANIELE GIUNTA A CURA DI: ELENA FORIN OPENING: SABATO 25 SETTEMBRE 2010 ORE 19.00  PERIODO: 25 SETTEMBRE – 20 NOVEMBRE 2010 “Mi piacerebbe che i disegni e le piccolissime pitture potessero raccontare una scomposizione di assoluti, i momenti minimi e gli attimi in cui dal nulla si origina il tutto”. Daniele Giunta (Arona, 1981) per la sua prima mostra alla Galleria La Giarina parte da qui, e concepisce il proprio intervento come un unico approccio fatto di attimi differenti, in cui, nello scorrere delle sale, varie tipologie di lavori (disegni, foto, quadri, azione performativa) sono poste a dialogare con il vuoto, con le luci e con un sistema di suoni. La visione installativa con cui Giunta costruisce il suo percorso, genera un equilibrio fatto di estremi, l’equilibrio Sternbild, in cui le opere, come in una costellazione, costruiscono un sistema attestato sulla ricerca di frequenze “estreme ed esterne” alla ricerca degli attimi in cui visibilità e percezione raggiungono al medesimo tempo, apici contraddittori. Le opere, secondo una concettualità già sperimentata con la seta, raccontano un percorso verso polarità assolute, flussi e osmosi di una materia pittorica ampliata allo spettro dei suoni, della carta fotografica e del disegno. In questo senso infatti, proprio come accade anche per la seta, carte e pellicole, lungi dall’essere semplici materiali che accolgono un ragionamento, permettono e stimolano la “caduta” e l’autonomia performativa che caratterizza la ricerca dell’artista. Alle grandi pitture della prima sala, collocate direttamente a pavimento a stimolare un ingresso immediato e orizzontale nell’ambiente dei suoi paesaggi, faranno seguito dei gruppi di piccole opere nella seconda sala, in cui, quasi a scomporre il grande respiro dei dipinti visti in precedenza, lo spazio verrà contrappuntato nei suoi momenti più forti e inattesi, unendo simbolicamente il senso della natura con lo spazio dell’architettura e con le sue tensioni. La grande galleria vetrata visibile dall’esterno, sarà invece teatro di una performance, in cui l’artista, attraverso un’azione performativa, attiverà il più profondo spirito che attraversa la sua opera e che ne contraddistingue la genesi metodologica e concettuale. In occasione della mostra verrà prodotto un catalogo che conterrà le immagini di tutte le opere, e un racconto per immagini della performance accompagnati da un testo critico di Elena Forin. La presentazione della pubblicazione avverrà in concomitanza e in collaborazione con ArtVerona. Daniele Giunta è nato ad Arona nel 1981. Vive e lavora a Milano. Gli sono state dedicate diverse mostre personali (Wrong Crypt, Galleria De Faveri, Feltre –BL- 2008; Ether, Rocca Sforzesca, Soncino, CR; Avalon, Novato Arte Contemporanea, Fano, 2007; Il Mondo della Bellezza Trasparente, Galleria Bianca maria Rizzi, Milano, 2007; “[0Rh+] Faith?”, Arte Giappone, Milano, 2006; Neve, il box, Orta San Giulio, Novara, 2004) e collettive, tra le quali si ricordano: Voglio la neve in agosto, LAB 610XL, Sovramonte (BL), 2010; Plenitudini, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di San Marino, 2010; Degli uomini selvaggi e d’altre forasticherie, Lab 610 XL, Sovramonte (BL), 2009; Viewpoint, S&G Arte Contemporanea, Berlin, 2008; Il Drago di Giorgio, LAB 610 XL, Sovramonte (BL), 2008; Digitale Purpurea, arsprima, Palazzo Ducale, Genova, 2008; ALLARMI 3, Caserma De Cristoforis, Como, 2007; 
La nuova figurazione italiana. To be continued…”, Fabbrica Borroni, Bollate (Milano), 2007. Catalogo_Sternbild_2010

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SCONNESSIONI

ARTISTI: Davide Coltro | Daniele Girardi | Assaf Gruber | Santiago Picatoste | Silvano Tessarollo SALA UNDERGROUND: long-stay installation di Manfredi Beninati ‘Perdersi una notte in un giorno’ PERIODO: 8 GIUGNO – 20 SETTEMBRE 2010   I segnali di cambiamento radicali che sono in atto nel nostro tempo, producono energie di contrasto e opposizione nei confronti di un sistema ormai incapace di rispondere alle attese dell’uomo contemporaneo. Di fronte all’annichilimento culturale, l’artista sceglie la posizione critica del pensiero che non si allinea e propone una lettura diversa del presente, resa possibile solo dal distacco da un potere mediatico “istituzionale” diventato mezzo di persuasione occulta delle menti. Questa “verità altra” va comunicata e condivisa con la propria ricerca artistica. Come asserisce Noam Chomsky, citando uno slogan del 68 ‘…non esiste “l’immaginazione al potere”, ma un’immaginazione che “ha il potere” …’. Ecco che i paesaggi esteticamente perfetti di Davide Coltro, diventano inquietanti per una luce artificiale che stravolge ordine e bellezza. I vulcani di Daniele Girardi esplodono all’improvviso, rivelando la rabbia e la potenza di una natura troppo a lungo violata per fare posto agli interessi di un vorace capitalismo. Assaf Gruber, israeliano, denuncia attraverso le sue immagini fotografiche, un processo di pace sempre faticoso da raggiungere in quella zona del Medio Oriente dilaniata da continui conflitti. Santiago Picatoste con le sue tele dove la natura appare irrimediabilmente contaminata dal petrolio, indica l’esito estremo della corsa irrazionale al profitto fine a se stesso. Alla fine, le nature morte di Silvano Tessarollo, lasciano cadere uno spettrale silenzio su ogni umana illusione di superamento del limite della materia.

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MEMENTO

Mostra n. 108 ARTISTI: Manfredi Beninati – Brigitte Niedermair – Maria Elisabetta Novello – Silvano Tessarollo A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI INAUGURAZIONE: SABATO 27 FEBBRAIO ORE 18.30 PERIODO: 27 FEBBRAIO – 30 MAGGIO 2010 “Le immagini di mattatoi e di carne mi hanno sempre colpito (…) che altro siamo se non potenziali carcasse?” Così scriveva Francis Bacon tra i suoi tormenti e le sue estasi. E se nel ‘600 il tema della “Vanitas” aveva una valenza prettamente allegorica, in quanto tutto il suo arredo di libri, candele, orologi, teschi richiamava la misurazione e il trascorrere del tempo, traducendo in immagine la constatazione della preziosità/fragilità dei desideri, delle aspettative terrene dell’uomo (della ricca borghesia mercantile del tempo), oggi le stesse “immagini obitoriali” hanno perso ogni dimensione moraleggiante: non sono più figure simboliche, giudizi o riflessioni sulla decadenza (e sulla fine), ma sono traduzioni indiziarie di quella che è la pura e semplice realtà. Fumo, inconsistenza, polvere non costituiscono richiami o rappresentazioni di un disfacimento, ma si identificano con la lampante presentazione del disfacimento stesso. E’ il sentimento della perdita che viene testimoniato: è l’osservazione della precarietà e della provvisorietà del mondo reale che viene documentata. Quello che allora era uno sguardo tragico sul futuro, adesso è diventato uno sguardo ansioso sul passato (o sul presente?) e sulla sporca desolazione che esso porta dentro di sè: come la caduta dei muri, la frantumazione dei progetti, l’esplosione delle forme. Non si può fare altro che riflettere sui propri confini, pensarsi al limite, sentirsi in un tempo senza più tempo. E allora, anche le “potenziali carcasse” di Bacon diventano immagini pittoriche già distrutte, già finite; come le figure di Giacometti fanno pensare ad esseri prosciugati, aspirati, spazzati via… Così, il titolo della mostra Memento (quia pulvis es…) fa prospettiva sul concetto di vuoto e sulla sua rappresentazione: è una riflessione sull’effimero, una celebrazione dell’assenza. E le opere prevedono la morte della natura al posto della classica “natura morta” (con tutte le sue magiche simbologie). Sulla scena si accampano solo simulacri, spettri, fantasmi di cose. E’ come se fosse il mutismo a venir colto o un’eco che si eclissa, dimentica di ciò che l’ha generata.  Non si dà creazione che non porti in sè i sintomi della distruzione; non si offre apparizione che non contempli la scomparsa. C’è l’incubo di Hiroshima, ci sono le macerie delle Torri, c’è la strage dello Tsunami, dietro a queste opere. Il loro paesaggio è quello dello sconcerto e dello straniamento. La loro dimensione è quella del mondo della “vita che va via”. L’artista non fornisce allora che testimonianze di tracce incerte, di cose che si ritirano, di spazi che si dissolvono. Il suo sguardo è come quello di colui che entra in un magazzino polveroso, pieno di oggetti affastellati senza poterne più riconoscere che la perdita, la realtà velata. Non gli è concesso darne un’interpretazione o fornirne un senso plausibile. La sua è un’opera che non rimanda al grido o al silenzio, ma un’opera che fa silenzio “in quanto domanda che vuole restare tale”: ferita aperta, inquietudine senza soluzione di continuità. E’ quanto suggeriscono le teche di Maria Elisabetta Novello che custodiscono “paesaggi” di cenere, dove ogni idea di oggetto diventa a suo modo spirituale, misteriosa, ma anche quanto suggeriscono le foto di Silvano Tessarollo: resti di vita, scarti che sembrano esistere solo perchè risvegliati dal tormento di una luce livida. Con le immagini di Brigitte Niedermair cambia lo scenario: lei allestisce (e poi riprende) dei set in cui mescola tipiche icone della “vanitas” con quelli che sono i segni dell’”impero dell’effimero”. Infine, i dipinti e le installazioni di Manfredi Beninati, ricorrono ad un inquietante e fastoso gioco di sovrapposizioni per dar vita a un mondo in cui ogni forma è colta nell’atto di trasformarsi, di sciogliersi, di disfarsi. Memento. Una mostra che non intende puntare il dito sui tratti nichilistici della vita, ma esibire qualcosa di più ambiguo e sfuggente, ossia quell’abbraccio mortale tra apparenza e realtà, tra certezza e problematicità in cui sta naufragando il mondo d’oggi. Non il disastro sbattuto in faccia, ma il concetto di obsolescenza che è incistato come un cancro in ogni cosa e persona: la convivenza del sublime con il sinistro, della bellezza con l’orrore. Catalogo_Memento_2010

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PRE-FAZIONE

Mostra n. 107 ARTISTI: MINJUNG KIM – MARIA ELISABETTA NOVELLO – GAIA SCARAMELLA A CURA DI: MARTINA CAVALLARIN – ELENA FORIN INAUGURAZIONE: SABATO 16 MAGGIO ORE 18.30 PERIODO: 16 MAGGIO – 22 SETTEMBRE 2009 prefazióne – s.f. Introduzione che, premessa a un’opera, ne esplica genesi, intendimenti e criteri metodologici. È da questo presupposto di “premessa simbolica” che prende il titolo Pre-Fazione, mostra a tre voci interpretata dalle giovani artiste internazionali Minjung Kim, Maria Elisabetta Novello e Gaia Scaramella che quest’anno prendono parte, con altri artisti, alla mostra Sant’Elena- La seduzione nel segno, evento collaterale della 53° Biennale di Venezia. Tra queste artiste c’è necessariamente incoerenza geolinguistica, differenti codici e ragioni, evidenze necessarie e dissonanti, eppure nella centralità del comune intento di Pre-Fazione le eterogenee espressioni stilistiche scandiscono un proprio privato dialogo che si arricchisce nella coralità dell’impresa. I lavori presenti in mostra rappresentano la fase germinale del lavoro realizzato per la Biennale di Venezia mantenendo allo stesso tempo una propria indipendenza e privata apparizione. L’universo delle possibilità dischiude tra le sale della galleria La Giarina una Pre-Fazione da svelare tra i cerchi combusti intrisi di spiritualità orientale dell’onda sensibile e materica delle carte e i cubi di cristallo di Minjung Kim, la linea intangibile della cenere con i racconti sovrapposti fondati su memoria personale e collettiva, e l’invisibile narrazione della Novello, le articolazioni destrutturate, taglienti e collegate in un equilibrio tra esercizio e talento delle incisioni di Scaramella. Pre-Fazione è una sedimentazione di segni, un pensiero comune che si fonda sul simbolo rappresentativo, una presenza energetica di opere in relazione ed espansione tra loro per confrontarsi sul piano del linguaggio, dell’esperienza, della poetica. MARIA ELISABETTA NOVELLO è nata a Vicenza, il 16 ottobre 1974, lavora a Udine. Ha esposto in varie mostre personali e collettive in spazi pubblici e privati. Di recente (2007) ha vinto il concorso “ManinFesto“ promosso dal Centro d’Arte Contemporanea di Villa Manin (a cura di Sarah Cosulich Canarutto, direzione artistica Francesco Bonami). Da tempo nella sua ricerca utilizza la cenere, materiale effimero e volatile di cui indaga le possibilità poetiche, segniche, pittoriche, materiche e installative in relazione alle tematiche della presenza, del tempo e di un’emotività fragile ma decisa ad affermare la propria intensa identità. MINJUNG KIM è nata a Gwangju, nella Repubblica Coreana, nel 1962. Lavora sul tema dell’apparizione e della stratificazione dell’immagine tra installazione, quadro e disegno. La sua ricerca sull’impalpabilità dei segni e sul loro scivolamento in dimensioni mentali e spaziali di una certa “liquidità” l’hanno portata a varie esposizioni personali e collettive tra Europa e Asia, in cui ha dimostrato quanto la sua indagine costituisca un importante momento di mediazione culturale tra linguaggi, filosofie e concettualità differenti per impostazione, mentalità e riferimenti sociali. GAIA SCARAMELLA è nata a Roma il 18 Febbraio 1979. Vive e lavora a Roma. Ha partecipato e vinto vari premi dedicati all’arte contemporanea e all’incisione, tecnica con cui indaga l’individuo in quanto essere sociale e portatore di una cultura che fonde memoria, storia, suggestioni e sclerotizzazioni contemporanee, voracità ossessiva e rigurgito comunicativo. I suoi lavori, dalle stampe calcografiche alle installazioni, attraversano l’uomo creando un cortocircuito estetico ed emotivo tra sacralità, misticismo, prolificazione espressiva, emotività,e coscienza iconografica, pittorica e poetica di un passato che si unisce al presente.

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PETROL

Mostra n. 106 ARTISTA: SANTIAGO PICATOSTE A CURA DI: ELENA FORIN PERIODO: 28 FEBBRAIO 09 – 30 APRILE 2009 Dopo Privacy, la mostra dedicata all’israeliano Assaf Gruber, la Galleria La Giarina continua la sua indagine tra le tendenze contemporanee internazionali con una personale di Santiago Picatoste (Palma de Mallorca, 1971). L’universo pittorico dell’artista spagnolo attraversa la sfera dell’estetica urbana per approdare attraverso l’esubero della forma e la forza di un fondo magmatico e in continua trasformazione, ad afferrare i movimenti della società, le sue latenze e il suo immaginario, fino a rivelarne i riverberi più violenti, attuali e inattesi. Con le sue nature allucinate fatte di smalti e pitture sintetiche, Picatoste lascia emergere uno spirito in cui trovano posto le contraddizioni e le molteplici sfacettature del nostro vivere, sospeso costantemente tra leggerezza e denuncia dei contenuti, che si fondono nella sua ricerca con una profonda consapevolezza del mezzo pittorico e della sua storia. In questo senso la figurazione estrema e dilatata dei suoi lavori raccoglie tanto il gusto “gigantista” e oversize pop, quanto la gestualità eloquente, violenta ed immediata dei movimenti espressionisti, e la rabbia divertita della street art e del graffitismo. A questo studio stratificato dell’immagine si aggiunge poi la coscienza sociale e politica che anima gli sviluppi estetici urbani e i comics più raffinati, e che in Picatoste si fonde con un’etica che mira a colpire attraverso l’immagine plastica la corrosione ecologica e la dispersione della natura, che torna nei suoi lavori come identità umana, civile e ambientale generata dalla contraddizione più “naturalizzata” del nostro tempo (naturale vs sintetico di vernici e pigmenti chimici). Le opere in mostra, tra cui una grande installazione a tematica politica e urbana, sono state realizzate appositamente per la mostra alla Giarina, che dell’artista spagnolo propone anche un video, non semplicemente ricerca multidisciplinare, ma altra forma di visione per l’urgenza dei suoi contenuti. Catalogo_Petrol_2009

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PRIVACY

Mostra n. 105 ARTISTA: Assaf Gruber A CURA DI: ELENA FORIN E ISIN ÖNOL catalogo in galleria INAUGURAZIONE: SABATO 6 DICEMBRE ORE 18.00 Periodo: 6 DICEMBRE 08 – 14 FEBBRAIO 09 Orario: dal martedì al sabato 15.30-19.30, mattino, lunedì e festivi su appuntamento Dopo la collettiva Work in Progress la Galleria La Giarina porta avanti il discorso sulla relazione tra individuo e ambiente con una personale dell’israeliano Assaf Gruber. La mostra, dall’emblematico titolo “Privacy”, si vuole soffermare sulla relazione intima e personale con il proprio contesto, identificando lo spazio non come luogo fisico in quanto tale ma piuttosto come realtà identitaria privata e ricca di latenze che uniscono il singolo alla società. Gruber in questo senso ci accompagna in un viaggio di scoperta dell’individuo a partire da un’opera (Home Alone) che svela una fragile ma copiosa sostanza intima umana di cui si trova traccia in episodi di senso differenti nelle altre opere esposte, che ne indagano la solitudine (Orly), la complessità delle esperienze tra società e individuo (Kikar Atarim) e la violenza in relazione al contesto esterno (Match Point, Manu and Dougie). L’insieme che si viene a creare porta quindi all’identificazione di una mappa antropologica tanto universale quanto privata, in cui isolamento, tensione psicologica, incertezza, azione e legame sociale individuano il percorso di crescita dell’uomo moderno, che spogliato da Gruber delle proprie convinzioni, è lasciato libero di vivere il flusso delle proprie emozioni e delle situazioni in cui la vita lo pone. In questa sua prima personale italiana l’artista raccoglie le fasi più intriganti della sua ricerca, in cui media differenti (fotografia, video, installazione) sono utilizzati per concertare ed esprimere la complessità del tempo contemporaneo, dando vita ad un’immagine tanto omogenea quanto frammentata e ricca di stratificazioni, e in cui il senso di mutamento temporale e fisico introdotto dalle opere esposte in Work in Progress si ritrova sotto forma di approccio per focalizzare una natura oggettiva affascinante seppur estremamente sfuggente e nascosta. Catalogo_Privacy_2009

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WORK IN PROGRESS

Mostra n. 104 ARTISTI: MARCO BOLOGNESI – DAVIDE COLTRO – DANIELE GIRARDI – ASSAF GRUBER – SANTIAGO PICATOSTE – SILVANO TESSAROLLO A CURA DI: ELENA FORIN PERIODO: 27 SETTEMBRE – 29 NOVEMBRE 2008 Con la collettiva Work in progress la Galleria La Giarina inaugura un percorso dedicato al difficile rapporto tra uomo e ambiente. Ciascuno degli artisti presentati (Marco Bolognesi, Davide Coltro, Daniele Girardi, Assaf Gruber, Santiago Picatoste, Silvano Tessarollo) esprime con mezzi linguistici ed estetici differenti, non solo la propria visione di questo instabile equilibrio, ma comunica l’inevitabilità di un confronto destinato a produrre continui cambiamenti antropologici, sociali e ambientali. Nella videopittura e nei disegni di Daniele Girardi un fuoco terribile devasta una natura che pur piegandosi e subendo il doloroso attacco delle fiamme resiste e continua ad offrire materiale da ardere; nell’installazione di Silvano Tessarollo l’ambiente e i suoi poveri resti portano le tracce di una scarnificazione fisica, intima e mentale il cui peso e la cui violenza si riscontrano nello sfondo cupo e drammatico della scultura, mentre in Santiago Picatoste l’equilibrio tra tensioni ecologiche, simbolismo, immagine ed azione urbana si uniscono in una pittura allucinata e dal sapore monumentale. L’ambiente e il territorio urbano fanno parte anche del lavoro di Marco Bolognesi, sebbene la lotta che lì si consuma riguardi la necessità di stabilire un ordine tra esseri umani reali e le ibridazioni umanoidi create da una certa ossessione cibernetica e sintetico-robotica. E se in questo senso il freddo ed elegante rigore di Assaf Gruber viene scaldato e ricomposto dalle mutazioni che la luce e le condizioni ambientali sanno produrre nelle sue installazioni, questa stessa delicata poesia viene poi ulteriormente incrementata nei Systems di Davide Coltro, in cui non solo il paesaggio è attraversato dal filtro di uno sguardo umano e umanizzante, ma in cui la tecnologia interviene per creare un circuito che unisce l’esperienza vissuta dall’artista all’emozione dello spettatore che la riceve, la rielabora e la fa propria. Lo sviluppo di queste linee tematiche proseguirà nei mesi successivi con le mostre personali dedicate all’israeliano Assaf Gruber (dicembre 2008) e allo spagnolo Santiago Picatoste (fine febbraio 2009). Catalogo_Work_In_Progress_2008

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EQUILIBRIDI

ARTISTA: ERNESTO JANNINI A CURA DI: BORIS BROLLO PERIODO: 12 APRILE – 28 GIUGNO 2008 Equilibridi è il libro che Ernesto Jannini ha pubblicato per la Matteo Editore e che dà il titolo alla sua personale che Boris Brollo presenterà sabato 12 aprile alle 18.30 presso la Galleria La Giarina di Verona. Ernesto Jannini si presenta al pubblico scaligero con nuove opere che evidenziano un ricco e sapiente percorso artistico nei territori dell’installazione, della pittura e della performance: un triplice display sul quale l’autore si muove da più di trenta anni di ricerca. In questa mostra Jannini affronta le tematiche più scottanti della nostra contemporaneità, andando ad indagare con distacco e ironia il rapporto tra la natura e la tecnologia e, ultimamente, la relazione tra la guerra, il senso dell’assurdo e la lucida follia che in molti casi sostanziano i progetti delle società occidentali. Attraverso l’immediatezza delle installazioni e delle performance Jannini ci restituisce le immagini delle contraddizioni in mezzo alle quali gli uomini si dibattono, le responsabilità ed i giochi di potere che hanno portato ad un determinismo imperante. E’ il caso dell’opera intitolata provocatoriamente Ultima cena, dove compare un missile sospeso a ottanta centimetri dal piano di una tavola imbandita; oppure nella performance Piano Bar, flash in cui l’autore accenna al pianoforte alcuni motivi standardizzati, ma con sempre sulle spalle il fardello di un missile. Azioni poetiche, apotropaiche, in cui gli ordigni di guerra sono elementi stranianti nell’alveo della nostra tranquillità quotidiana. Sul versante della pittura, che Jannini concepisce come pratica del silenzio, l’autore è pronto a cogliere l’innocenza smarrita di cani, di fiori o di frutti: immagini attraversate costantemente da una striscia orizzontale di microcircuiti. “ Le cose che apparentemente sembrano distanti – si legge nel libro di Jannini – devono poter convivere in un nuovo equilibrio; anche se si tratta di un equilibrio stridente, o che tende all’ibrido. Per questa ragione, creando un neologismo, io parlo di equilibridi: cioè equilibri fluttuanti, sistemi provvisori che approdano al paradosso di una stasi in movimento.”

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ALTO PAESAGGIO

ARTISTA: ADRIANO NARDI A CURA DI: LORENZO CANOVA PERIODO: 2 FEBBRAIO – 5 APRILE 2008 Adriano Nardi, nella sua seconda personale presso la galleria La Giarina, approfondisce il suo lungo e complesso lavoro di ricerca sui meccanismi della rappresentazione, attraverso opere che fondono pittura e digitale e divengono il tramite per una riflessione sull’ordine e gli inganni della percezione. La dimensione analitica che segna da sempre il lavoro di Nardi viene qui condotta su un binario sospeso dove il corpo femminile può paradossalmente trasformarsi nelle forme di un paesaggio mentale, sfidando le nostre certezze e raggiungendo un territorio di indagine concettuale dove la bellezza viene scomposta e riordinata attraverso un metodo rigoroso di studio della visione e delle sue coordinate. La pittura assume dunque consistenze differenti, si trasforma in un’epidermide rugosa o in un medium dalla presenza lievemente materica, si smaterializza nei fluidi rivoli dei pixel e ritorna ambiguamente per sviare le sicurezze del nostro sguardo. In questo cortocircuito tra occhio e mente, la figura umana ritrova così misteriosamente una nuova forza per occupare lo spazio dell’immagine attraverso il sistema paradossale della sua apparente dissoluzione, mediante il suo smembramento e la sua scomposizione, dialetticamente risolti però nelle metamorfosi della sua struttura che scoprono il nuovo ed enigmatico valore della sua presenza fisica e simbolica.

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DIES IRAE

ARTISTA: SILVANO TESSAROLLO A CURA DI: LUIGI MENEGHELLI CATALOGO: TESTI DI LUIGI MENEGHELLI ED ELENA FORIN PERIODO: 6 OTTOBRE 2007 – 15 GENNAIO 2008 Quattro installazioni poste sotto il segno della spogliazione, della mutilazione, del disastro. Quattro giostrine (quelle “dei seggiolini volanti”) che sembrano nulla più che residui, braccia disarticolate, posticce reminiscenze formali. Ma il lavoro di Silvano Tessarollo non vuole dare atto di quella apocalisse continua che contraddistingue ormai tutte le cose che accadono nel mondo. Esso casomai mette in scena il regno dell’attesa, dell’immobilità, dove tutto è sul punto di finire, ma in realtà non finisce mai. L’eco di antiche suggestioni infantili, di giochi errabondi rimane intatto, solo che pare eternarsi nello spazio attraverso un’infinità di snodi, di pezzi accostati che danno l’impressione di resistere unicamente aggrappandosi gli uni agli altri. E’ come se Tessarollo, alla pari di Eliot, volesse puntellare con dei frammenti le rovine dei suoi sogni. E lo fa con perizia accurata, con devozione maniacale, sigillando ogni elemento con cera, pigmenti, fuochi purificatori. Egli non si piega alla disfatta: anzi fa proprio della disfatta il trionfo del suo linguaggio. Se qualche anno fa l’artista praticava il mondo tenero, mostruoso, deliziosamente perfido dei fumetti o dei cartoons per plasmare “strane creature” che si portavano addosso le proiezioni ironiche della vita normale, ora la grazia sghemba delle “giostre” sorge come una traccia, il tracciato visibile di una vita che si sposta sempre più verso il grado zero dell’animazione. Il biblico Dies irae (che dà il titolo alla rassegna) evoca esattamente questo: l’interruzione di ogni gesto, lo spostamento del reale al limite del vuoto, “il verbo terribile” che annuncia la fine dei tempi e dei giri degli anni. Scrive Elena Forin in catalogo: “il vuoto sembra essere l’atmosfera di questi ambienti, un vuoto totalizzante e fortemente connotato, pieno di ferite, di drammi e lacerazioni”. E aggiunge Luigi Meneghelli: “Una situazione estrema che spinge l’artista verso una concentrazione particolare, come chi debba inventarsi da un frammento esploso un nuovo senso del mondo”. Il che è quanto dire che Tessarollo cerca la rovina, sceglie di stare in essa, come per conoscerla meglio, capirla, provar a stare nella sua stessa vertigine.

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DULCIS IN FUNDO

ARTISTI: VALERIA AGOSTI NELLI – CLARA BRASCA – DAVIDE COLTRO- DANIELE GIRARDI – ERNESTO JANNINI – ADRIANO NARDI – GIUSEPPE RADO – LUISA RAFFAELLI. PERIODO: 12 LUGLIO – 28 SETTEMBRE 2007  Collettiva d’estate di artisti già presentati dalla galleria in mostre personali nelle ultime stagioni: Valeria Agosti Nelli – Clara Brasca – Davide Coltro – Daniele Girardi – Ernesto Jannini – Adriano Nardi – Giuseppe Rado – Luisa Raffaelli. In un affascinante gioco di allusioni e illusioni ci si muove tra pittura, scultura, fotografia e video, cercando di uscire dagli schemi obbligati di un gusto ormai decisamente globalizzato e omologato. Leggerezza e sottile ironia connotano i diversi lavori esposti.

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FROM POD TO POD

ARTISTA: GIUSEPPE RADO A CURA DI: MAURIZIO SCIACCALUGA PERIODO: 21 APRILE – 30 GIUGNO 2007 Il 21 aprile 2007 alle ore 18.30 la Galleria La Giarina inaugura a cura di Maurizio Sciaccaluga, la mostra personale di Giuseppe Rado “From Pod To Pod”. Senza darlo a vedere, la ricerca di Rado ha i modi e lo stile dello zapping televisivo, di quel fai-da-te che caratterizza oggi immagini e palinsesti televisivi. Anche l’artista s’è costruito il suo programma prendendo da dove meglio ha creduto e potuto e, di volta in volta, costruisce e assembla la storia e il finale che più gli aggrada. In fondo, come in quegli spezzoni interrotti lasciati sospesi dal correre frenetico del telecomando da un programma all’altro, nelle foto dell’artista manca un prima e manca un dopo, e questo prima e questo dopo, oltre che dalla fantasia degli spettatori, possono essere dati soltanto dalle altre immagini firmate e presentate dall’autore, sono rappresentati dagli antecedenti e dagli sviluppi della ricerca. Storie e vicende sincopate dunque, certo, trame a singhiozzo e surreali, ancor più certo, ma anche una libertà estrema nel dar sfogo all’immaginazione, nel cercare il sonno più sonno, lo sguardo più sguardo, l’eccezionalità più eccezionale. Giuseppe Rado è nato a Brindisi nel 1970, vive e lavora a Bologna. Catalogo_FromPodtoPod_2007

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REGINE DI CUORI

ARTISTI: VALERIA AGOSTI NELLI – CLARA BRASCA A CURA DI: IVAN QUARONI PERIODO: 3 FEBBRAIO – 14 APRILE 2007 La Galleria La Giarina è lieta di presentare la mostra Regine di cuori, che mette a confronto le opere su carta (e di carta) di Valeria Agosti Nelli e Clara Brasca, due artiste le cui ricerche parallele, ma stilisticamente molto differenti, sono accomunate non solo da una visione personale e lirica della condizione umana, ma anche dalla scelta di una tecnica e di un medium specifici. Il disegno è, infatti, fin dagli albori, considerato lo strumento espressivo più prossimo all’idea originaria dell’artista. Nelle sue Vite, il Vasari scriveva infatti che “perché da questa cognizione nasce un certo concetto e giudizio che si forma nella mente quella tal cosa, che poi espressa con le mani si chiama disegno, si può conchiudere che esso disegno altro non sia che un’apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e di quello che altri si è nella mente imaginato e fabricato nell’idea”. Scarno o elaborato che sia, il disegno è, dunque, la forma di eloquenza più intima a disposizione dell’artista, quella che consente una trascrizione più fedele tra il progetto e la sua realizzazione. Le due artiste muovono da presupposti antitetici. Valeria Agosti Nelli, che presenta una serie di opere di piccole e medie dimensioni e alcune sculture di carta pesta, si esprime attraverso un linguaggio in cui prevale la componente espressionistica ed emotiva del tratto. Clara Brasca, che per l’occasione espone una decina di grandi opere, invece predilige uno stile più sobrio, che traspone la linea chiara del classicismo nei confini di una grammatica cromatica assolutamente contemporanea. Valeria Agosti Nelli dipinge esili figure femminili, in bilico tra fragilità e forza, tra leggerezza e pesantezza. La sua ricerca si profila come un’indagine sulla precarietà della condizione esistenziale, come un’incursione tra le pieghe di un’intimità inviolabile. Attraverso l’uso di un disegno sapientemente stilizzato, l’artista fissa sulla carta una carrellata di ritratti sospesi, di rarefatte immagini in cui si fondono le memorie arcaiche dell’archetipo femminile e la struggente testimonianza delle nevrosi contemporanee. Le sue figure filiformi, siano esse disegnate o scolpite, contribuiscono a creare uno stile gentile e discreto, che contrappone al clamore volgare di tanta arte contemporanea la propria muta poesia. Per Clara Brasca disegnare non è solo un’attività progettuale. Le sue carte, dipinte con tempere viniliche, sono opere autonome. Rispetto alla compostezza astratta e compita dei dipinti, nei disegni dell’artista milanese c’è una maggior libertà formale, una scioltezza di tratto e una levità di tono nuove. I suoi soggetti, desunti da quotidiane meditazioni sul mito, la poesia, la religione e l’arte, sono immersi in una materia cromatica vibrante, che grazie all’accostamento di toni complementari sortisce sorprendenti effetti di fluorescenza. Il suo interesse è rivolto all’indagine di una condizione umana sublimata, quasi svincolata dagli affanni quotidiani, in un confronto serrato con gli archetipi sempre vivi del mito e della storia. Catalogo_Regine_Di_Cuori_2007

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IL RESPIRO DELLA MATERIA

Mostra n. 97 ARTISTA: VASCO BENDINI A CURA DI: GIORGIO CORTENOVA PERIODO: 7 OTTOBRE 2006 – 30 GENNAIO 2007 Il 7 ottobre 2006 alle ore 18.30 la galleria La Giarina inaugura, a cura di Giorgio Cortenova, la mostra – VASCO BENDINI_IL RESPIRO DELLA MATERIA – ampia personale con opere dagli anni cinquanta ai nostri giorni, di un importante protagonista e anticipatore dell’informale italiano. Vasco Bendini, nato a Bologna nel 1922, allievo di Virgilio Guidi e Giorgio Morandi, è stato uno dei pittori più seguiti e amati da Francesco Arcangeli che ha presentato le sue prime personali a Firenze, Milano, Roma negli anni cinquanta, anni in cui è nata la serie “Segni segreti”, seguita, alla fine del 1956 dalla serie “Gesto e materia” che proseguirà fino agli anni settanta. Autore di raffinata cultura, solitario e schivo per carattere, ma eclettico e audace sperimentatore quando si tratta di affrontare l’opera, Bendini non volle mai riconoscersi in una scuola o corrente, tanto che negli anni sessanta la sua ricerca si spostò sull’arte oggettuale e comportamentale, precorrendo in qualche modo l’arte povera. Ma la pittura, sua più autentica vocazione finirà per vincere. Questo ritorno darà vita negli anni successivi a nuovi cicli di lavori che, sempre di più, lo dichiareranno figura unica nel contesto della pittura italiana del dopoguerra. Unicità che si definisce forse proprio in quell’equilibrio “fragile, instabile, slittante” che Arcangeli aveva letto già nei suoi primi lavori, unito a quell’”accentuazione dello spirituale” che eleva la materia a poesia. Presente a tre edizioni della Biennale di Venezia nel 1956-1964 e 1972, tra le mostre pubbliche più importanti ricordiamo nel 1989 l’antologica di Palazzo Forti a Verona, curata da Giorgio Cortenova, nel 1992 alla Galleria Civica di Modena, alla Galleria D’arte Moderna di Bologna e alla Civica di Trento. Nel 1998 al Museo dell’Università degli studi La Sapienza di Roma e nel 2003 al Museo di Lissone.

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